«Il mio avvocato Guerrieri tra etica e solitudine»

Gianrico Carofiglio ha il pregio di raccontare la procedura penale dandole un fascino narrativo. Questa sua dote sarà al centro dell’incontro che lo scrittore terrà a Catania lunedì 12 febbraio alle 17,30 nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza, nell’ambito delle iniziative del settore “Circuiti culturali” dell’Ateneo.

Barese, magistrato, 46enne, Carofiglio si è guadagnato una reputazione con i fortunati thriller giudiziari pubblicati da Sellerio – Testimone inconsapevole (2002), Ad occhi chiusi (2003), Ragionevoli dubbi (2006) – oltre al romanzo Il passato è una terra straniera, edito da Rizzoli (2004). La sua è un’originale via italiana al legal thriller, felicemente infarcito dei segni di una cultura cinematografica, musicale, letteraria. Ma anche la descrizione di una realtà in cui le persone socialmente più fragili vengono calpestate con puntualità.

Quella di Carofiglio è una scrittura veloce, lineare e diretta, senza ammiccamenti, stile semplice sino alla naturalezza, capace di trascinare il lettore che si ritrova inconsapevolmente avvinghiato alle pagine.
Il protagonista di tre dei suoi quattro romanzi è l’avvocato Guerrieri. Un personaggio di assoluta credibilità, sotto il profilo umano e professionale. Un eroe buono, malinconico e senza moralismo. Ascolta Springsteen, Rem e Lou Reed; legge poesie di Kavafis.

In genere, i personaggi dello scrittore barese partono sempre da un vuoto emotivo. Da questo si tuffano a capofitto nella realtà come fosse un argine, un tampone alle ferite della vita privata. Il tutto sullo sfondo di una Bari moderna e misteriosa, piena di ombre e luci, di personaggi loschi, di una giustizia che arranca, ma con un sottofondo etico che è impossibile non cogliere.

Nelle sue storie c’è uno spessore etico unito a un lato oscuro, il suo personaggio si muove tra le strade di Bari, in piena notte, si siede a tavoli da gioco con ex assistiti e delinquenti. Come concilia questi aspetti?
«Per me non c’è etica senza un contatto con il lato oscuro. La scelta fra il bene e il male è questione complessa e dolorosa, che presuppone la conoscenza del male. Detto questo: mi fa molto piacere che si noti la dimensione etica dalle cose che scrivo».

Cosa l’ha spinta a scrivere il punto di vista di un avvocato, lei che nella vita reale fa il pubblico ministero?
«La spiegazione immediata è che quando ho cominciato a scrivere nella mia testa si è presentato l’avvocato Guido Guerrieri, è stato il risultato di movimenti sotterranei. Forse mi sarei annoiato a raccontare le vicende di un pubblico ministero, sarebbe stato come tenere un (noioso) diario delle mie giornate quotidiane. Ho cercato di guardare le mie cose quotidiane con occhi nuovi, quelli di un avvocato, appunto. Proust diceva che il viaggio non è vedere posti nuovi ma con occhi nuovi. è da qui che sono partito cominciando a raccontare le mie storie».

C’è un’inquietudine e un dolore costante nel suo Guerrieri, come se l’allegria rimanesse sempre un passo indietro, nascosta agli altri, esattamente come l’ironia, perché?
«In realtà credo si tratti di un’alternanza tra un versante e l’altro. In Guerrieri coesistono, credo, la tragedia e la commedia. I lettori mi dicono che amano molto l’autoironia del personaggio e, devo dire, per me non esiste soddisfazione maggiore che quella di far ridere».

Il suo avvocato è un personaggio solitario, pochi amici, rapporti sentimentali difficili, nessun accenno alla famiglia. C’è una precisa scelta nella solitudine?
«Raccontare la solitudine anche etica, che non si rassegna, è raccontare soprattutto un dialogo interiore. Anche la scelta dei pittori per le copertine dei libri, da Hopper a Vettriano, è imperniata su immagini che descrivono la solitudine. Ha anche a che fare con la ragione del raccontare, e mi piace pensare che sia una solitudine coraggiosa».

Nei suoi libri fa dire a Guerrieri di sentirsi “Un intruso a una festa in cui tutti sanno comportarsi”. In questo c’è lei?
«Sono io. Mi sono sentito e mi sento spesso un intruso e abusivo, ma per certi aspetti va bene. Come se dovessi impormi sempre il dovere etico del disagio. Adorno diceva che la forma più alta di moralità è di non sentirsi mai a casa, nemmeno nella propria. Io sono d’accordo».

Il protagonista è un po’ un suo alter ego nei gusti musicali, nelle sue letture, nel praticare il karate, nel suo essere un uomo del Sud?
«Decisamente ci sono molti dei miei gusti nell’avvocato Guerrieri, è del Sud perché è in quel contesto territoriale, però non lo si può ridurre a questo. è un alchimia complessa, lui come me è esposto anche a influenze culturali e ascendenti letterari lontani. La musica è allusione. Un’altra lingua, la sola che non abbia bisogno di essere tradotta. Evocare una strofa o una melodia, basta, in certi casi, a dire quel che non si può dire. Lo stesso vale per le citazioni dei libri, è essere lievi, inserirsi nel racconto come sua parte fondante, non essere tanto esplicite da appesantirlo. Quando funziona è proprio un incanto. Trovare e ricordare insieme».

Quali sono le sue ispirazioni letterarie?
«Ho preso molto da stili di scrittura, più che da autori, e sicuramente mi hanno influenzato alcuni americani. Per esempio la costruzione della frase di Carver. Non le sue storie, che amo meno. è il modo in cui mette insieme le parole che mi affascina. E poi Steinbeck e il suo vocabolario essenziale di parole essenziali. Parole prime. Una volta una editor molto brava mi ha fatto un complimento, dicendomi appunto che ho una scrittura fatta di parole prime (come i colori primi). è uno dei complimenti che mi ricordo in modo più nitido, e che mi fa più piacere ricordare».

(fonte: UniversitInforma, edizione del febbraio 2007)


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