Invece di opporsi fermamente al de-finanziamento dell'università pubblica, in molti atenei si assiste a una corsa all'aggiustamento parziale, allo "stratagemma tattico, per quanto utile": risponde al questionario di Step1 Chiara Rizzica, ricercatore e docente precario (per l'anno accademico 2009-10 è docente a contratto di Composizione Architettonica)
Il futuro di Unict/4 Numero chiuso: questione aperta
In vista dell’adozione a partire dall’anno accademico 2010/2011 del numero programmato in tutte le Facoltà dell’Università di Catania, in una recente intervista ai microfoni di Radio Zammù, il Rettore ha parlato di un test d’ingresso per ogni facoltà e della possibilità, da parte degli studenti, di partecipare a tutte le selezioni, che si effettueranno in giorni diversi, indicando però un ordine di preferenza. Come crede che debbano essere strutturati i test per garantire una selezione equa? Ha fiducia nella capacità dei test di selezionare? A suo avviso, quali dovrebbero essere i contenuti?
«Il fatto che l’adozione del numero programmato, ovvero chiuso, in tutte le facoltà sia indicata dall’amministrazione di questo Ateneo come una misura strategica per il suo funzionamento a partire dal prossimo anno accademico non vuol dire, a mio avviso, che sia automaticamente dovuta. E’ una scelta, non una necessità. Non dobbiamo, però, perdere di vista il fatto che lo stato d’emergenza in cui si trovano oggi tutti gli atenei italiani, sia i “virtuosi” che gli “spreconi”, è la diretta conseguenza della politica, scellerata, di riduzione dei finanziamenti da parte del Governo: senza risorse economiche adeguate l’università pubblica in Italia è condannata alla paralisi e non ci sarà stratagemma, per quanto tattico, utile a salvarla “a costo zero”. Lo hanno già detto presidi, rettori ed ex ministri. Chi ha responsabilità di governo negli atenei – i docenti, gli studenti ed il personale tecnico-amministrativo rappresentati negli organi collegiali – rilanci sul piano di un rinnovamento radicale a favore dell’istituzione universitaria piuttosto che ripiegare su quello della “corsa” all’aggiustamento parziale, opponendo una ferma resistenza al processo di de-finanziamento del sistema universitario pubblico, ora. Detto ciò mi pare che l’opzione di ridurre il numero degli studenti che possono accedere ai corsi di laurea non può, e non deve, essere la soluzione alla riduzione di fondi imposta dal Governo alle università. Tagli per far fronte ai tagli? È questa la strategia efficientista anti-spreco? Non sarà piuttosto un altro spreco di risorse strategiche, di intelligenze, competenze e talenti?».
«Se poi si opta per i test d’ingresso, che almeno siano “utili” allo scopo: selezionare ovvero scegliere alcuni tra tanti in base ad un criterio prestabilito, per esempio una valutazione sui “saperi minimi” piuttosto che sulle attitudini, e senza addolcire la pillola. L’opportunità di partecipare “a più test per tutti” rischia, infatti, di essere una falsa opportunità, una contraddizione: o la selezione in base al test – “vado se sono ammesso” – o la preferenza dello studente – “vado dove mi pare” – delle due l’una. Il tema della selezione equa garantita, infine, mi ricorda quello del concorso universitario imparziale trasparente: l’uovo di Colombo. Come tutti i meccanismi di selezione anche i test d’ingresso sono rigidi, eppure hanno un loro grado di libertà: se si accettano bisogna fidarsi ed essere competitivi sulla base delle regole stabilite, niente di più, niente di meno. Il dibattito non può, perciò, riguardare solo le modalità di selezione, ma deve includere anche le opportunità. Da sempre, infatti, si discute del “come fare” accanendosi sui tecnicismi più affilati e dimenticando i fondamentali, forse grossolani, perché: perché escludere gli uni e accettare gli altri? Perché se lo meritano e perché l’eccellenza non è per tutti, per definizione. Giusto. Ma senza opportunità per tanti, quale valore assume il merito di pochi? Un valore scarso, inevitabilmente».
Come crede che le future matricole affronteranno i test d’ingresso? Non c’è il rischio che siano scoraggiate ad intraprendere gli studi universitari dal timore di non trovare posto nel corso di laurea prescelto? Non potrebbe accadere che gli studenti si indirizzino verso quei corsi in cui, secondo un calcolo delle probabilità è più facile entrare, sacrificando però i loro reali interessi? Inoltre, su Internet ci sono liceali che già si chiedono se ci saranno corsi (anche a pagamento) per prepararsi al test. Non si rischia di creare un grande business per i privati? Il numero chiuso a Medicina ha già creato il fenomeno delle iscrizioni in corsi di laurea “affini” (ad esempio Farmacia), con successivo passaggio al secondo anno di medicina dopo il superamento del test. Non c’è il rischio che il numero programmato generalizzi questo fenomeno dei passaggi dall’una all’altra facoltà per sormontare gli sbarramenti?
«Tra le future matricole l’idea del numero chiuso, come tutti gli esami, genera scompiglio che, combinato con la larga e diffusa sfiducia nell’istituzione pubblica, finisce col produrre risposte spesso deviate rispetto alle aspettative sulle carriere e ai progetti professionali. Ma il rischio di una generazione di laureati a “gratificazione zero” non è l’unico. Indirizzare il proprio percorso formativo in funzione della probabilità di accesso al corso di laurea – grado di difficoltà del test d’ingresso e numero di posti a disposizione – piuttosto che a seconda delle proprie capacità e inclinazioni significa, il più delle volte, votarsi ad una carriera universitaria low-profile costruita sul progressivo aggiramento di esami e sbarramenti vari, piuttosto che sul raggiungimento degli obbiettivi formativi. Non dimentichiamo che oggi nelle università italiane pochissimi si laureano nei tempi previsti e moltissimi si perdono per strada (il 45% degli universitari italiani non arriva alla laurea, fonte La Stampa 8/2/2010). Aggiungiamo a questo percorso a ostacoli la variante del passaggio tattico attraverso il “corso di laurea dello schermo” – quello cosiddetto affine – in cui, per esempio, lo studente di Medicina si finge studente di Farmacia per un anno o più e otterremo il quadro del fallimento universitario perfetto: studenti non-studenti collocati per un trucco, neanche per sbaglio, in corsi di laurea-fantoccio tagliati, nel numero di posti a disposizione, in funzione del numero di docenti in forza alle varie facoltà (come previsto dalla riforma universitaria ora in discussione al Senato). E qualora i professori di ruolo non fossero in numero sufficiente per coprire tutti gli insegnamenti, per gli studenti-non studenti si chiameranno docenti-non docenti, a titolo gratuito, a garanzia di merito non-merito, qualità non-qualità ed efficienza non-efficienza. Non fa una grinza, ma è una farsa».
«Se l’università pubblica, infine, fosse un luogo democratico e pluralista i corsi di preparazione ai test d’ingresso a pagamento non esisterebbero. Ma poiché esistono e soprattutto poiché non si può proibirli d’autorità bisognerebbe allora renderli inutili attivando corsi estivi gratuiti sulle tecniche di risposta e costruendo test che misurino conoscenze di base, competenze linguistiche ed informatiche, capacità logiche e di articolazione del discorso scritto e orale: i “saperi minimi”. Che i test si confezionino a Catania o altrove mi sembra irrilevante».
Passiamo alla situazione dei corsi di laurea specialistica. Considerando i drastici tagli di fondi a cui saranno sottoposte le tutte le facoltà dell’Ateneo catanese, crede possibile l’attivazione di specialistiche maggiormente “attraenti”? Come si pone il problema della qualità della laurea di secondo livello nella sua facoltà ed area disciplinare?
«Un corso di laurea è “attraente” se attrae un elevato numero di studenti. Se si adotta il numero chiuso, e se poi si riduce il numero dei posti a disposizione perché non si possono reclutare nuovi docenti, allora l’equilibrio domanda-offerta pende sempre a favore della prima e il corso di laurea sarà doppiamente attraente, forse addirittura seducente, ma non è detto che il titolo acquisito sia poi di altrettanto appeal, ovvero spendibile sul mercato del lavoro. La laurea oggi non offre più un consistente valore aggiunto: un laureato spesso guadagna poco più di un diplomato, a volte addirittura meno. Occorre guardare oltre e dentro: la riforma del 3+2 ha prodotto un’ondata di entusiasmo tra i diplomati – università più corta e più facile – cui non è corrisposta un’adeguata risposta in termini di collocazione nel mercato del lavoro; l’università è pur sempre un costo, ma sempre più spesso il risultato non vale l’investimento. La prima questione da affrontare è, dunque, come formare laureati competitivi sul mercato nazionale ed internazionale, cui è direttamente collegato il tema della “qualità” dei corsi di laurea. In questa prospettiva nella facoltà di Architettura di Siracusa l’offerta formativa negli anni è stata rimodulata in funzione di un progressivo radicamento nel territorio – la formazione de “l’architetto di piccole città” per esempio – al quale, però, non è corrisposto un adeguato investimento in termini di risorse da parte del Consorzio Archimede che la amministra. Oggi sono attivi due corsi di laurea, uno quinquennale a ciclo unico ed uno triennale, dall’anno prossimo ad esaurimento per effetto dei tagli al finanziamento e dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni ministeriali. La scommessa della facoltà di Architettura oggi è, dunque, la sopravvivenza: la tutela dei percorsi formativi dei propri studenti e la valorizzazione del capitale di professionalità e competenze didattiche e scientifiche accumulate. Anche in questo caso la miopia dei provvedimenti del Governo ha prodotto uno spreco, travestito da risparmio».
A partire dal prossimo anno accademico, oltre alla selezione all’entrata, i tagli all’Università provocheranno l’aumento delle tasse per gli iscritti. “In nome di una maggiore qualità”, sostiene il ministro Gelmini. Pensa che il miglioramento qualitativo della didattica sarà immediatamente percepibile?
«Molte università hanno pensato bene di controbilanciare il taglio dei finanziamenti statali aumentando le tasse d’iscrizione, dunque mi pare altamente improbabile che da ciò derivi un miglioramento della qualità della didattica o dei servizi, ovvero un beneficio immediato per gli studenti. Quanto ricavato dall’extra sulle tasse servirà a pagare le spese di ordinaria amministrazione – gli stipendi per esempio. Si preleverà dalle tasche degli studenti quanto basta per non andare in bancarotta, quanto basta a supplire al “mal tolto” dal Governo Berlusconi. Ancora una scelta – far pagare gli studenti – non una necessità. Dopo l’euforia delle lauree brevi e del proliferare dei corsi di laurea “sotto casa” noi universitari italiani, docenti e studenti, siamo rimasti, tutti, stritolati tra inefficienze e sprechi, tagli al finanziamento, crisi economica e disillusioni. Siamo isolati, invece di avvicinarci alla media Ocse per tasso di universitari e laureati, abbiamo ricominciato a distanziarci, senza che il nostro Governo se ne dia pena. E l’Università sta diventando affare per pochi. Sempre meno, sempre più ricchi, sempre mediocri. Ma anche questa è una scelta, non una necessità. E allora scegliamone un’altra di Università: quella solidale, diversa da quella elitaria falsamente meritocratica, quella che ci appartiene in quanto membri, tutti, di una comunità scientifica laica, pluralista e pubblica. Che non è poco. Il fatto di continuare ad immaginarla è una scelta ed una necessità».