Il debito pubblico italiano? Non siamo tenuti a pagarlo

NON SIAMO MATTI E NON CI STIAMO INVENTANDO NULLA. STIAMO SOLO CHIEDENDO L’APPLICAZIONE DELLA SENTENZA DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA DEL 1938, STRUMENTO CHE COLPISCE ALLA RADICE LA FINANZA SPECULATIVA. GIA’ APPLICATA NEL 1936 IN FAVORE DELLA GRECIA CONTRO UNA SOCIETA’ BELGA

Le ragioni di fondo per le quali l’economia italiana va male, secondo alcuni, risiede nell’enorme debito pubblico. Debito che negli ultimi anni ha continuato a galoppare sino a raggiungere la soglia del 136 per cento del Prodotto nazionale lordo (Pil).

In altri termini, se tutto il reddito prodotto in un anno venisse utilizzato per pagare il debito nazionale, questo non sarebbe sufficiente, perché resterebbe ancora una rata residua equivalente ad oltre un terzo del reddito nazionale stesso. La dimensione è davvero preoccupante, ma nessun governo negli ultimi vent’anni è stato capace di ridurlo, tranne uno. E vedremo in seguito quale.

Nessun governo è stato capace di mettere il nostro Paese in condizione di rilanciarsi economicamente. Il precetto al quale i vari governi Berlusconi, D’Alema, Prodi, Monti, Letta ed ora Renzi è stato per tutti lo stesso: privatizzazioni-riforma del lavoro (licenziamenti facili e precariato a tutto spiano)-riforma del sistema pensionistico. Risultato: zero. L’Italia non cresce, mentre il debito deborda sempre più.

Attenzione, nessuno si è accorto che le ricette adottate sono risultate tutte fallimentari? Non parliamo delle privatizzazioni, perché gli esiti sono tutti davanti ai nostri occhi: banche (sotto il controllo spagnolo o francese), Alitalia (ora in mani degli emiri, atteso il fallimento dei ‘capitani coraggiosi’ di berlusconiana memoria), telefonia (nelle mani di spagnoli e inglesi), tutto il comparto del fashion, produzione-pilota del “made in Italy”, ormai nelle mani di imprese straniere che ne sfruttano la credibilità commerciale, anche se lavorazioni, con l’Italia, hanno ormai ben poco a che vedere.

Sul piano dell’occupazione si assiste alla emigrazione di massa dei giovani intellettuali, apprezzati all’estero e mortificati nel nostro Paese ed alla proliferazione del lavoro (nero in ogni senso) senza il quale i nostri prodotti agricoli resterebbero alla pianta. Insomma, se non vi fossero i disperati della cosiddetta immigrazione ‘clandestina’. nessuno raccoglierebbe più pomodori e altri prodotti.

In queste condizioni strutturali pensare alla possibilità di creare reddito in misura tale da pagare il debito pubblico è una pia illusione.

Gli intellettuali non ci sono più e quelli che si riesce faticosamente ad incontrare sono ormai omologati al potere. Nello sport non si riesce ad esprimere nulla di valido. Figurarsi che ai recenti campionati di Atletica leggera un delle due medaglie d’oro italiana è stata conquistata da una ragazza cubana, Libania Grenot, naturalizzata italiana per matrimonio. Per non parlare del calcio la cui ‘tragedia’ brasiliana della azionale ha sortito un neo presidente razzista e spendaccione.

E quando qualcosa di significativo si presenta, vedi il caso di Vincenzo Nibali, diventa appannaggio, anche nello sport, di organizzazioni straniere. Nella circostanza, la Astana del Kazakistan.

Che dire? Cumulando tutte le attuali espressioni della società nazionale dall’economia, alle istituzioni pubbliche e alla cultura possiamo tranquillamente affermare che l’Italia è un Paese in piena decadenza.

Ad aggravare la complessa situazione ci è capitato pure un Governo di giovani sprovveduti, i cui orientamenti sono espressione di consulenze abbastanza discutibili. Infatti, i principali collaboratori e consulenti del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, appartengono alle varie massonerie finanziarie internazionali: dalla McKinsey alla Morgan Stanley, passando per i fondi speculativi di Algebris.

Nessuno di costoro – e sono tanti: da Yoram Gutgeld, economista israeliano, a Davide Serra, ex direttore di Morgan Stanley e promotore del fondo speculativo Algebris, a Filippo Taddei, macro economista docente della School Advanced International Studies – ha però una ricetta capace di rilanciare l’economia produttiva che costituisce l’unica vera risorsa del nostro Paese.

In particolare, Davide Serra, ex civatiano convertito al renzismo, è il giovane finanziere che il Corriere della Sera ha definito “l’italiano della city che dà del tu ai banchieri”.

Davide Serra dopo avere partecipato alla quarta edizione della Leopolda, ha organizzato per Matteo Renzi la cena a Milano con i facoltosi della finanza, per raccogliere i fondi necessari alla sua partecipazione alle primarie del PD.

Se poi ci soffermiamo sul progetto politico di Serra ci accorgiamo che esprime i punti sostanziali del programma del governo Renzi: taglio della spesa pubblica, abolizione del Senato e delle Province ed accorpamento dei piccoli Comuni; aumento delle aliquote delle rendite finanziarie per abbassare le tasse sul lavoro; taglio delle pensioni d’oro; semplificazione del sistema tributario e lotta all’evasione.

Tutte misure necessarie, per carità, ma nessuna che lasci intravedere alcuno spiraglio per la ripresa economica e produttiva nazionale: ripresa che, se non partirà dal Mezzogiorno, non verrà mai.

Ripresa che, invece, può avvenire alla sola condizione che l’Europa cambi radicalmente la propria politica economica, fiscale e finanziaria. La ripresa produttiva è l’unica misura capace di ridurre l’enorme debito pubblico italiano.

Come si è visto non basta ridurre i trasferimenti ai Comuni ed alle Regioni. Questo perché i tagli ai trasferimenti comportano la riduzione dei servizi ai cittadini e tuttavia il debito pubblico continua ad aumentare costantemente. Logica elementare consiglierebbe di cambiare strada ed assumere altre ricette per curare il male endemico della nostra economia.

Su questo punto le soluzioni sono due: o si riesce a fare aumentare il Prodotto interno lordo o si invoca la sentenza della Corte internazionale di Giustizia del 1938, lo strumento universalmente riconosciuto per colpire alla radice la finanza speculativa.

In questo senso, bene ha fatto Chiara Comini di quieuropa a richiamare i precedenti ricorsi a tale sentenza ad opera di due Paesi latino-americani: l’Argentina per le sue disavventure finanziarie del 2003 e l’Ecuador per la crisi che quel Paese ha conosciuto nel 2011.

Cosa dice la sentenza della Corte di Giustizia? Esprime un concetto abbastanza semplice e, volendo, ovvio: “Se il rimborso del debito mette in pericolo la vita economica e l’amministrazione, il governo ha l’obbligo di arrestare o ridurre il debito”.

Tale sentenza fu emessa a seguito del conflitto intervenuto tra la Grecia ed il Belgio. Il primo ministro ellenico del tempo, Joannis Metaxas, si rifiutò di pagare il debito contratto con la banca Societé Commerciale de Belgique. Era il 1936 ed il governo greco presentò le proprie motivazioni a fronte del ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia da parte del Belgio.

Le motivazioni greche furono sostanzialmente accolte interamente e – come puntualmente le ricava Chiara Comini dall’Annuario della Commissione di diritto internazionale – così recitano: “Il governo della Grecia, in ansia per gli interessi vitali del popolo greco e l’amministrazione, la vita economica, la salute e a sicurezza interna ed esterna del Paese, non può pagare. Qualsiasi governo avrebbe fatto lo stesso”.

A seguito della sentenza, nel 1938, la Corte di Giustizia emanò un memoriale del quale c’è traccia nel già citato Annuario. In esso si afferma che in casi di straordinaria crisi finanziaria che “rende impossibile per i governi rispettare i loro obblighi verso i creditori e la propria gente” i debiti non si pagano.

Insomma: “Se le risorse del Paese sono insufficienti a soddisfare entrambi i requisiti contemporaneamente” si deve pensare alla vita dei cittadini e non ai debiti. Se non è possibile pagare il debito pubblico e al tempo stesso dare al popolo la buona amministrazione e le condizioni per lo sviluppo morale, sociale ed economico, si deve scegliere tra i due obblighi.

“Naturalmente il dovere dello Stato di garantire il corretto funzionamento dei servizi pubblici essenziali oltrepassa il pagamento dei debiti. Ciò dal momento che nessuno Stato è tenuto a svolgere, in tutto o in parte, ai suoi obblighi finanziari se si mette in pericolo il funzionamento dei servizi pubblici e se ha portato alla rottura del Paese”.

A completamento della sua ricerca su l’assai discusso argomento, Chiara Comini richiama una pietra miliare del dibattito internazionale sull’argomento: il saggio del professore Alexander Mahun Sack, docente di diritto all’università di Parigi: “Gli effetti della trasformazione dello Stato sul debito pubblico e su altre obbligazioni finanziarie”.

In esso si legge: “Se un governo dispotico incorre in un debito non per bisogni o per interessi dello Stato, ma per rafforzare il regime, per reprimere la lotta della popolazione contraria al regime stesso, tale debito è odioso per la popolazione e dell’intero Stato. Questo debito non è un’obbligazione per la nazione: è un debito del regime che lo ha contratto, un obbligo personale del potere”. Con questa motivazione il professore Sack già nel 1927 formalizzò a livello internazionale il concetto di “debito odioso”.

Con queste premesse storiche proviamo a ‘leggere’ le politiche che i governi italiani hanno messo in campo da almeno quindici anni. Cioè da quando l’unico ministro che è riuscito, nel breve periodo di poco più di un anno e mezzo, a ridurre di 15 punti l’incidenza del debito sul Prodotto nazionale lordo. Parliamo del ministro del Tesoro, Vincenzo Visco, al tempo del secondo governo Prodi.

Durante quel governo il debito pubblico italiano è passato dal 119 al 104 per cento del Pil. Colpevole di avere sottratto alla rendita finanziaria speculativa margini di profitto certo, il ministro Visco è sparito dalla scena pubblica e chissà, forse, se lo si incontrerà in futuro.

Oggi vanno di moda gli esperti dell’Osce, del Fmi, graditi , addirittura, segnalati dalla Troika: i Mario Monti, i Cottarelli e la pletora di consulenti economici accreditati a Palazzo Chigi dal governo Renzi. Tutta gente che predica il taglio della spesa pubblica, dei servizi ai cittadini (definiti sprechi) e l’aumento dei flussi finanziari attraverso le banche, per esempio trattenendo presso di loro per un mese i soldi provenienti dalla compra-vendita immobiliare.

Tutte misure che si muovono in senso esattamente opposto alle ragioni addotte dalla Corte internazionale di Giustizia nel 1936 per dare ragione alla Grecia che rifiutava di pagare il suo debito alla banca belga.

Eco, se questi sono i fatti, la domanda che d’obbligo dobbiamo porci è: quali sono gli interessi che l’attuale governo di Matteo Renzi, al pari dei suoi predecessori, sta tutelando?

Gli italiani nelle recenti consultazioni elettorali europee hanno affidato al partito di Renzi il 40,8 per cento dei consensi in corrispondenza dell’annuncio che il governo italiano avrebbe portato modifiche sostanziali alle politiche europee. Adesso ci siamo alla guida dell’Europa, ma di politiche tese a modificare i trattati (Maastricht, per esempio) non se ne parla nemmeno. Anzi, Matteo Renzi, nelle consultazioni che hanno preceduto il suo insediamento alla guida semestrale dell’Europa, ha voluto rassicurare tutti che l’Italia si impegna a rispettare le regole esistenti, in cambio vuole solo un po’ di flessibilità. Tutto qui.

E dire che basterebbe che l’Italia annunciasse che riconosce al 50 per cento il suo debito pubblico per ottenere il dimezzamento degli interessi annuali sul debito stesso ed, a un tempo, rientrare entro i limiti del 60 per cento previsto come tetto dal Trattato di Maastricht. Avrebbe dalla sua parte il diritto internazionale.


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