Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dei vertici dell'Arma vengono descritte due delle pagine più controverse della lotta alla mafia degli ultimi decenni. Dinamiche mai chiarite del tutto ma stranezze e la mancanza di un movente non hanno convinto i giudici della volontà di favorire Cosa nostra
Il covo di Riina e l’inseguimento a Terme Vigliatore Ombre e «scelte inadeguate» dei militari del Ros
La mancata perquisizione del covo di Totò Riina e l’episodio di Terme Vigliatore. Due fatti che, al pari della mancata cattura di Bernardo Provenzano, hanno contribuito a gettare ombre sull’operato del generale Mario Mori. Anni di processo, testimonianze, ricostruzioni non sono state sufficienti a fugare queste ombre, ma neanche a confermare, secondo i giudici, l’intenzione da parte dei vertici del Ros di favorire le latitanze dei capimafia indiscussi di Cosa nostra in quegli anni. Fino ad arrivare alla sentenza di assoluzone in appello per l’ex generale Mori e per il colonnello Mauro Obinu.
Era il 15 gennaio del 1993. Riina era appena stato arrestato, i carabinieri, tuttavia non hanno proceduto con la perquisizione del covo in via Bernini. Una decisione strategica «presa dai vertici del Ros in pieno accordo con l’autorità giudiziaria che ritenne sufficiente l’osservazione interna al cancello che consentiva l’accesso al residence», scrivono i giudici. «Il furgone attrezzato per l’osservazione venne portato via alle 16 dello stesso pomeriggio» della cattura «per ordine specifico del capitano Sergio De Caprio», meglio noto come Ultimo. Il tutto «senza informare l’autorità giudiziaria» che, comunque, in quel momento «non chiese spiegazioni».
Le testimonianze raccolte non hanno mai chiarito come siano andate le cose in quel frangente e, come spiegato nelle motivazioni della sentenza che ha assolto in appello i vertici dei Ros Mario Mori e Mauro Obinu, «non c’è certezza che Mori fosse stato informato da De Caprio della cessazione del servizio di osservazione». Né per i giudici si può accertare che dietro questo comportamento ci fosse l’intenzione di favorire «soggetti peraltro imprecisati appartenenti a Cosa nostra». Nonostante ciò, tuttavia, i togati non usano la penna leggera con i carabinieri. «La scelta di privilegiare – spiegano – qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito, appare davvero non adeguata, per usare un eufemismo».
Pochi mesi dopo, era il 6 aprile, ancora Sergio De Caprio, insieme a Giuseppe De Donno si trovavano di passaggio, casualmente, per Terme Vigliatore, nel Messinese. Nello stesso luogo, lo stesso giorno, i carabinieri di Messina avevano appurato da diverse intercettazioni la presenza di Nitto Santapaola, capo indiscusso della mafia catanese. Quel pomeriggio, i militari del Ros hanno parcheggiato le auto di fronte a una villa, non lontano dal locale in cui sarebbe stato Santapaola, ma non hanno fatto irruzione. Non in quella casa quanto meno. Sono entrati infatti, armi in pugno, nella vicina villa della famiglia Imbesi. «Di tale irruzione armata, riferita da tutti i proprietari della villa e dai loro familiari, non fu fatta alcuna menzione negli atti ufficiali».
Dall’abitazione stava uscendo Fortunato Giacomo Imbesi, inseguito in auto dal capitano Ultimo, che non ha esitato a sparare contro l’uomo, scambiato per il latitante Pietro Aglieri. Nessuna traccia di Santapaola, che sarebbe stato catturato pochi giorni dopo. Anche in questo caso i giudici hanno riscontrato «l’estrema difficoltà dei militari nell’indicare e chiarire in modo plausibile le ragioni della loro presenza a Terme Vigliatore, incorrendo anche in palesi contraddizioni». Elementi che, però, non sarebbero sufficienti a dimostrare «la fondatezza dell’assunto accusatorio». Sarebbero bastati infatti alcuni spari in aria, concludono ancora i giudici, per mettere in fuga Santapaola. E proprio l’inseguimento rocambolesco di De Caprio ai danni di Imbesi sarebbe stato «poco compatibile con una messinscena di tal fatta», scagionando, dunque Mori.