Il Cibo come destino ultimo dell’umanità

DA OGGI INIZIAMO UN ‘VIAGGIO’ NELLA FILOSOFIA DEL GUSTO. PER CAPIRE COS’E’ CHE, OGGI, CI PORTA A RAGIONALE SULLA GRANDE ARTE DE MANGIARE

di Cettina Vivirito

“(…) Sentii all’istante che era troppo tardi per andarmene. In un vapore di aglio, fagioli, grasso di agnello, pomodori, cipolle, olio mi apparve quella mano irremovibile, e io ne presi il cucchiaio di stagno. Ora penserete forse che inghiottendo quella brodaglia dovessi sentirmi strozzato dal disgusto, e che per il mio stomaco non ci fosse nulla di più impellente che rigurgitarla. Quanto poco sapete della magia del cibo! E quanto poco ne sapevo io stesso fino a quel momento. Giungere a gustarlo fu un’inezia, fu solo il piccolo, decisivo passaggio tra i due momenti: prima sentirne l’odore, poi però essere irrimediabilmente ghermito, follato da capo a piedi, impastato dal cibo; esserne afferrato, dal cibo come dalle mani della vecchia puttana, spremuto, e spalmato del suo succo, suo del cibo o della donna, questo non avrei più saputo dirlo. L’obbligo della cortesia era soddisfatto, ma anche la foia della vecchia strega, e io risalii il monte consapevolmente arricchito dell’esperienza di quell’Ulisse che vide trasformare in porci i suoi compagni.”

Mai avremmo probabilmente sospettato che il grande filosofo, Walter Benjamin, noto per “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, avesse scritto le sue memorie gastronomiche (non sospettavamo nemmeno che ne avesse), che ora sono state pubblicate in un volume dal titolo “Mangiare”, per l’editore Henry Beyle, in una limitata tiratura per bibliofili.

Ma si sa, da un po’ di tempo a questa parte, tutti pazzi per il cibo; persino la seconda edizione della Mostra Internazionale “Libri antichi e di pregio a Milano” che si è tenuta a Palazzo Mezzanotte, ha avuto quale tema chiave l’arte culinaria: “Cinque secoli di gastronomia italiana; l’arte della cucina nel libro italiano dal Quattrocento ad oggi”. Gourmet, bibliofili e cuochi e oltre cinquecento anni di cultura del cibo si sono dati appuntamento nella sede milanese. (sopra, foto tratta da alai.it)

Per Bacco, verrebbe da dire. E non si parlerà d’altro almeno fino all’edizione Expo 2015 che tratterà di cibo a trecentosessanta gradi e che ha già un titolo eloquente: “Nutrire il Pianeta Energia per la Vita”.

Che si tratti d’amore, è fuor di dubbio. Che l’amore sia follia, è chiaro altrettanto. Il vero problema è sempre lo stesso: quanto è autentico questo Amore? E basti questa, se non vogliamo inoltrarci nel territorio insidioso di ben altre domande.

Tutti noi conosciamo la storia di That’s Amore; la conosciamo perchè all’inizio fu una canzone italo-americana del 1952 composta da Harry Warren e dal paroliere Jack Brooks, che divenne un grosso successo nel 1953 nella registrazione di Dean Martin, quindi divenuta molto popolare, con un refrain che canticchiamo tutte le volte che vogliamo trasmettere la semplicità e la naturalità della nostra dedizione al cibo e a un Italia che in questo senso non ha appartenenze, ma è piuttosto oltreoceanica. “When the moon hits you eye like a big pizza pie That’s amore… When the world seems to shine like you’ve had too much wine That’s amore… (…)Quando la luna colpisce il tuo occhio come una grande fetta di pizza. Questo è amore… Quando il mondo sembra splendere come se hai bevuto troppo vino Questo é amore… Quando le stelle ti fanno venir fame come la pasta e fagioli Questo è amore…Scuzza me, but you see, back in old Napoli That’s amore…

In poche note sgrammaticate di una tarantella c’è dentro tutta la storia dell’Amore per la nostra cucina, rappresentata da una vecchia Napoli che non sa parlare bene l’americano ma che è insuperabile nella preparazione di pizze e piatti squisiti che portano con sè gli odori i sapori le nostalgie e le memorie di una vita semplice e, soprattutto, tipicamente italiana.

Tutte le volte che entriamo in un ristorante che si chiami That’s Amore (e ce ne sono ormai tanti da non distinguerne più la bontà degli intenti) ci illudiamo di trovare quel bucolico senso di appartenenza a una tavola autentica, la nostra, con dei cibi cucinati con amore quasi che provenissero direttamente dalla zolla dell’orto appena dietro.. In realtà, da dietro, piuttosto che odori rupestri spesso sentiamo arrivare solo il ronzio di un vecchio, riciclato congelatore che contiene magari gamberetti cinesi e altre inaffidabilissime porcherie.

Ma, viene da chiedersi, perché abbiamo bisogno di un’inchiesta giornalistica per sapere da dove arriva ciò che mangiamo e del dietologo per decidere cosa ordinare al ristorante?

L’assurdità della situazione probabilmente risale all’autunno del 2002, quando uno dei più antichi e venerabili mezzi di sostentamento scomparve di punto in bianco dalla tavola degli americani: il Pane. Un attacco collettivo di fobia per i carboidrati colpì una nazione non ancora riavutasi dalla sua venticinquennale fobia per i grassi.

Nel 1977, all’epoca dell’amministrazione Carter, un’apposita commissione del Senato aveva stabilito una serie di “obiettivi alimentari”, ammonendo gli americani, grandi amanti della bistecca, a ridurre drasticamente il consumo di carne rossa e l’intera popolazione fino ad allora si era scrupolosamente adeguata. Poi l’inversione di rotta. Tutto lascia pensare che sia stato un attacco mediatico perfettamente coordinato, con nuovi libri di diete, articoli scientifici, e un pezzo uscito su una rivista proprio al momento giusto.

I regimi alimentari iperproteici a basso consumo di carboidrati trovarono sostegno in nuove (e poche) ricerche epidemiologiche, in cui si insinuava il dubbio che l’ortodossia nutrizionale americana degli ultimi anni potesse essere sbagliata. Forse non erano i grassi a rendere obesi gli americani, ma i carboidrati. Nell’estate del 2002 il “New York Times Magazine” pubblicò una storia di copertina il cui titolo diceva più o meno: “E se i grassi non facessero ingrassare?” Nel giro di pochi mesi la nuova religione dietetica fece riscrivere i menù dei ristoranti e rivoluzionò gli scaffali dei supermercati. Decine di pastifici e panifici fallirono.

Un fatto del genere non sarebbe mai potuto accadere in una società che possedesse solide tradizioni riguardo al cibo e al modo di mangiare; né, tantomeno, una siffatta società avvertirebbe la necessità che il supremo organo legislativo stabilisse “obiettivi alimentari”. Un Paese con una forte cultura del cibo non spenderebbe ogni anno milioni di dollari per l’ennesimo libro sulla dieta pieno di sciocchezze o di banale buonsenso. Non consumerebbe un quinto dei pasti in auto, non farebbe mangiare unn terzo dei suoi figli nei fast-food tutti i giorni. E di sicuro non sarebbe pieno di obesi. In una società sana nessuno si stupirebbe del fatto che esistono paesi come la Francia o l’Italia dove si sceglie cosa mangiare sulla base di criteri bizzarri e poco scientifici come il gusto, il piacere, la tradizione; la cosa stupisce a tal punto gli americani da parlare di paradosso francese: come è possibile che un intero popolo dedito a consumare sostanze notoriamente tossiche come il fois gras e il roquefort sia alla fine più sano e più magro?

Il “dilemma dell’onnivoro” (espressione coniata già da autori come Rosseau o Brillat-Savarin e più recentemente da Paul Rozin) sulla scelta del cibo è una lente d’ingrandimento molto rivelatrice per osservare i tormenti alimentari del nostro tempo.

Ed eccoci qui, al mercato o al ristorante, assaliti da dubbi onnivori, alcuni ancestrali, altri del tutto inediti: compro le mele normali o quelle biologiche? Il pesce selvaggio o quello d’allevamento? Olio di semi, burro o margarina di soia? E se diventassi vegetariano? Magari vegano?

Siamo tornati indietro: come un cacciatore-raccoglitore nella foresta posto di fronte a un fungo mai visto deve fare ricorso ai sensi e alla memoria per capire se valga la pena raccoglierlo, così noi oggi ci aggiriamo nei negozi, soppesiamo pacchi, scrutiamo etichette, ci chiediamo il significato di espressioni come “omega tre”, “privo di grassi trans”, “allevato all’aperto”; e cosa saranno mai gli aromi naturali per grigliate, il TBHQ, o la gomma xantana? E, soprattutto, come diavolo sono finiti nelle cose che mangiamo?

Probabilmente dobbiamo entrare dentro la più fondamentale transazione tra specie: mangiare ed essere mangiati. “La natura nel suo complesso” scrisse il teologo W. R. Inge “non è che la coniugazione del verbo mangiare, nelle sue forme attiva e passiva”.

E c’è persino chi riesce a vederci il Sole.

Ma andiamo per gradi e avviciniamo il problema come dei veri naturalisti, armati di sguardi d’insieme di scienze come l’ecologia e l’antropologia, senza tralasciare la visione ravvicinata dell’esperienza personale.

Continua..

 


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