Di cettina vivirito
Il cibo come destino dell’umanità: “I mangiatori etici”
di Cettina Vivirito
La visita al Feedlot con Michael Pollan è stata un’esperienza triste e fondamentale, ma non esaustiva circa i nostri più comuni dubbi sul cibo, da quelli etici a quelli proteici; piuttosto “se smetto di mangiare animali sono un noioso cretino?”, si chiede qualcuno in un blog.
La sindrome del mangiatore etico prima o poi tocca a tutti. Ispirato da Slow Food e prima ancora dalla cultura liberale californiana, il mangiatore etico è diventato lecogastronomo più avanzato. Meno ortodosso dei vegetariani, forse più sensato: mangia carne in quantità limitate, si preoccupa che polli, pesci e ortaggi non arrivino da troppo lontano perché un altro aspetto fondamentale del mangiare etico è il chilometro zero. Non sappiamo a che punto della sindrome del mangiatore etico vi troviate in questo momento; noi mangiatori etici dopo molti sforzi, mangiatori etici con la consapevolezza dei non nati mangiatori etici, mangiatori etici ormai indignati, resistiamo senza sforzo apparente davanti a una teglia di bracioline alla salvia.
(sopra, a destra, foto tratta da ecopensare.net)
Una cosa deve essere chiara al di là di ogni ragionevole dubbio, per diventare mangiatori etici: cosa sono gli animali e quale rapporto dobbiamo avere con loro. L’argomento è di straordinaria attualità, e in mezzo a milioni di pareri, più o meno scientifici, più o meno specialistici, più o meno liberali, autorevoli, letterari ed etici il risultato è di non sapere più da che parte stiamo. Nel programma di cucina “River Cottage”, Hugh Fearnley Whittingstall, chef e volto noto della Tv inglese, afferma: “Non c’è nessuna differenza tra mangiare un cucciolo di cane e una bella bistecca. Non ci sono differenze tra un animale e l’altro. Si tratta di costruzioni artificiali create dalla nostra società che ci insegna che i cani sono animali da compagnia mentre i maiali vanno macellati”.
Nell’interessante e crudele libro “Se niente importa”, l’autore, Jonathan Safran Foer, afferma: “Il nostro cibo fa sempre parte di una tavola globale, di un incessante processo di macellazione, morte, domanda, offerta – del quale siamo partecipi, anche se ignorarlo è molto più comodo. Ogni boccone di hamburger che mastichiamo corrisponde a una quantità precisa di dolore, e non solo”.
Mentre Beppe Bigazzi, ne “La prova del cuoco”, ci ricorda: “Negli anni 30 e 40 come tutti gli abitanti della Val dArno a febbraio si mangiava il gatto al posto del coniglio, così come cera chi mangiava il pollo e chi non avendo niente andava a caccia di funghi e tartufi non ancora cibi di lusso. Del resto liguri e vicentini facevano altrettanto e i proverbi ce lo ricordano”.
M. Pollan, giornalista del N.Y. Times e professore universitario, nel suo viaggio alla ricerca del cibo buono pulito e giusto come ha precisato Carlo Petrini, afferma che in realtà: “Il nostro rapporto con gli animali presenta aspetti schizoidi: affetto e brutalità coesistono. Se la metà dei cani che vivono in America riceve dei regali di Natale, pochi di noi si fermano un momento a riflettere sulla triste esistenza dei maiali (spesso intelligenti quanto i cani) che finiscono sulla nostra tavola sotto forma di prosciutti. Il motivo per cui tolleriamo questa contraddizione è che la vita dei maiali è definitivamente uscita dalla nostra sfera visiva”.
La dottrina biologica è così ardua da seguire che pochi ci riescono: è difficile mettere in piedi un sistema modellato sulla natura, che non necessita di sostanze chimiche e in genere di prodotti acquistati all’esterno, e che restituisce al terreno tutto ciò che preleva. I coltivatori che maggiormente si avvicinano a questo ideale operano in genere a scale più piccole. Sono quelli che arrivano a seminare dozzine di specie diverse in campi che sembrano trapunte variopinte, e praticano lunghe e complesse rotazioni raggiungendo una ricca biodiversità nello spazio e nel tempo, chiave di volta di un’azienda che voglia essere sostenibile quasi nel modo in cui lo è un sistema naturale. Questo tipo di aziende oggi non ha rapporti con grandi realtà semplicemente perchè conviene di più rifornirsi in un campo di mille ettari piuttosto che in dieci campi di cento ettari ciascuno. Se si dovesse tenere rifornito il reparto surgelati e ortofrutta in una grande catena di distribuzione ci sarebbe bisogno di una tale quantità di prodotti biologici in magazzino che non rimarrebbe scelta se non quella di comprare le materie prime di fornitori che operano alla stessa scala.
Se pensiamo a una fattoria biologica ci viene in mente un’azienda agricola a conduzione familiare, di piccole dimensioni, con siepi e fosse per il compostaggio e camioncini antiquati; non associamo questo termine a squadre di lavoratori immigrati, mietitrebbia grandi come case, impianti mobili per il trattamento dell’insalata che si muovono su immensi campi di lattuga romana, capannoni che ospitano ventimila polli, o tenute con centinaia di ettari coltivati a mais, broccoli o quant’altro, che si estendono a perdita d’occhio fino all’orizzonte.
Eppure, le due aziende, biologiche e tradizionali, dall’esterno sono identiche; per molti aspetti il modo di operare è lo stesso, se si eccettua il fatto che ogni sostanza chimica impiegata nella coltivazione convenzionale viene sostituita, in quella biologica, con un corrispondente naturale meno aggressivo. Quindi i fertilizzanti di origine petrolchimica cedono spazio al compost, prodotto in grande quantità in allevamenti di cavalli situati nelle vicinanze, e al letame di pollo. Al posto dei pesticidi, per limitare la presenza di insetti nocivi si fa uso di una specie di prodotti autorizzati (in gran parte di origine vegetale) che possono essere spruzzati senza danni, come il rotenone, il piretro e il solfato di nicotina; oppure si introducono specie utili come le crisope. Il modello comunque è lo stesso: si ottengono output a partire da certi input. La macchina produttiva è molto più ecologica nei campi bio, ma sempre di macchina si tratta.
Comunque sia, i produttori più quotati deplorano questo stato di cose: per loro, questa semplice sostituzione di un ingrediente con un altro è una deviazione dall’ideale biologico, secondo il quale un’azienda deve creare fertilità il più possibile in modo autoprodotto e combattere i parassiti con le armi della diversificazione e della rotazione.
Mai nella mia vita avevo speso tanto tempo a contemplare l’insalata e a riflettere su ciò che rappresenta: è qualcosa di molto strano, o almeno così sembra quando sei impalato davanti il frigorifero. Ben pochi alimenti umani sono così elementari: dopotutto, non è che una manciata di foglie da consumare crude. Il contrasto tra la semplicità dell’alimento, con tutti i suoi sottintesi bucolici, e la complessità industriale che si trovava alla sua base, stava portando la mia testa surgelata verso una certa dissonanza cognitiva. Cominciavo a pensare che non ero più in grado di dare un preciso significato a un’idea che avevo inseguito in lungo e in largo e per molti anni: quella di “biologico”. E’ una domanda ineludibile e probabilmente anche insensata ma mi chiedo: può davvero essere definita biologica un’insalata pronta che si trova sugli scaffali di un’azienda a più di cinquemila chilometri da qui e 5 giorni di viaggio? E se sì, in che senso? E se questo sacchetto giramondo merita davvero la sua etichetta di bio, (e i gas inerti contenuti nel sacchetto?) non dovremmo trovare allora un altro modo per definire i prodotti di una catena molto più corta e molto meno industriale, cioè quella che avevano in mente i pionieri del movimento? I piccoli produttori biologici la pensano proprio così: rinunciare al termine “biologico” o richiedere standard ancora più elevati.
Il significato della parola “biologico”, coniugato in tutti i sensi per farvi rientrare quelle pratiche di tipo industriale a cui un tempo il movimento era stato alternativo sembra indicare che, alla fine, tutto rientra nel modo in cui gira il mondo. Eppure gli ideali e le fantasie bucoliche presenti in un mondo biologico, naturale, vivono ancora in molti di noi, come ben sanno gli uomini di marketing delle grandi compagnie bio: basta dare un’occhiata al cartone di latte certificato, con le sue mucche felici su verdi pascoli ed ecco che un’idea rispettabile viene svuotata di contenuto e ridotta a una finzione dolciastra, stampata su una confezione di latte o su una busta di That’s Amore Findus; è sempre la stessa Arcadia del supermercato.
(Foto di prima pagina promiseland.it)