Il Catania retrocede. «Non ci sono scuse»

L’’ultima retrocessione di cui io abbia veramente memoria è quella, per me, più lontana nel tempo: quella che ci portò, nel millenovecentoottantaquattro, ad abbandonare la serie A dodici mesi dopo averla gloriosamente conquistata. Ci sono state altre retrocessioni, certo, negli anni successivi. Ma nessuna che mi abbia inciso gli stessi solchi nella memoria, che mi abbia lasciato in gola lo stesso amaro.

Si trattò, a dar retta ai numeri, di una retrocessione assai peggiore di quella di quest’’anno, che da oggi ha il prevedibile suggello della matematica. Finimmo il campionato con soli dodici punti e la miseria di un’’unica vittoria in stagione (contro il Pisa). Vedemmo la squadra che un anno prima aveva conquistato la promozione dalla serie B rivelarsi niente più che una squadra da serie B. I due brasiliani arrivati in estate, Luvanor Pedrinho –– che ci erano stati gabellati rispettivamente come l’erede di Zico e come un difensore di livello mondiale –– risultarono, rispettivamente, una pippa assoluta, che non riuscì a fare un gol manco per sbaglio; e un terzino del tutto ordinario, salvo un certo talento nel tirare le punizioni. Ci si mise anche il fatto che alcuni dei nostri giocatori migliori (come Mastalli) passassero il campionato in infermeria a causa di gravi infortuni. In qualche caso, si aggiunse a ciò l’’imprevisto imbrocchimento dei migliori: perfino il leggendario Roberto Sorrentino, l’’insuperabile portiere della promozione, incorse, sotto il bombardamento degli attaccanti avversari, in qualche imbarazzante papera che per un po’ lo depose dal piedistallo su cui l’’avevamo collocato. Quanto al tecnico, Gianni Di Marzio, di lui ricordo solo un malinconico dettaglio: il disco rotto che metteva ogni settimana dopo la partita. Per spiegare a stampa e tifosi che non c’era da preoccuparsi. «Il campionato —– diceva —– comincia domenica». Una domenica che non arrivava mai. Intanto, la magnifica tifoseria che, un anno prima, aveva assordato l’’Olimpico di Roma con il coro di quarantamila voci rossazzurre, si ridusse a berciare la propria frustrazione in modo assai scomposto, specializzandosi in tafferugli e invasioni di campo che ci sarebbero costati una lunghissima squalifica dello stadio.

Eppure, quasi inspiegabilmente, io quella retrocessione non so separarla da un senso di rabbia che va oltre le semplice umiliazione sportiva. Dall’’iperbolica ma non completamente infondata sensazione che il Catania, quell’’anno, sarebbe andato in B anche se avesse allestito una rosa degna del Real Madrid. Una squadra che finisce il campionato senza tirare neanche un rigore, una squadra che sta platealmente sul naso a tutti gli arbitri, una squadra che si vede misteriosamente annullare il gol più limpido e spettacolare che sia mai stato annullato su un campo di calcio, non smette di essere, sol per questo, una squadra scarsa. Ma dimostra di essere anche una squadra sola contro tutti. Un’’eccezione da rimuovere al più presto, in una serie A –– com’’era quella di allora –– abituata a vedere in Napoli la città più meridionale dell’’Italia del pallone.

Ma quest’’anno? Siamo retrocessi perché troppo scarsi? Suvvia: la squadra è inferiore a quella dell’’anno scorso, ma per otto undicesimi è la stessa. E poi: non avevamo forse il tempo di tornare sul mercato per correggere le lacune dell’’organico? E non avremmo lo stesso potuto salvarci in carrozza, se solo avessimo giocato due o tre partite con lo stesso furore messo in campo domenica scorsa contro la Roma, e oggi sul campo del Bologna, dove abbiamo vinto con un uomo in meno? O forse che, quest’’anno, qualcosa di rilevante ci è stata tolta dagli arbitri? Non avevamo subito molti più torti un anno fa, quando sapemmo reagire agli arbitraggi più scandalosi e conquistare il record di punti in serie A?

Non ci sono scuse, quest’’anno. È per questo che l’’attuale retrocessione brucia assai più di quella di allora. Perché non l’’avevamo messa in conto. Perché davamo per scontate troppe cose: una società che sembrava amministrata con criteri di buona conduzione aziendale, un centro sportivo che tutti ci invidiano, una politica degli acquisti che era sempre stata lungimirante e capace di scoprire talenti sconosciuti. Una politica che ci aveva col tempo convinto che non servissero giocatori-bandiera. E aveva indotto la società a liquidare molti ragazzi che ci avevano toccato il cuore –– come Spinesi, o come Stovini, o come Baiocco –– senza neanche dir loro grazie.

E invece no. Ci eravamo illusi due volte. Sul fatto che qualunque giocatore vestisse la maglia rossazzurra avrebbe fatto sempre il suo dovere, giocando al massimo delle proprie capacità. E poi, sull’’abilità di chi doveva amministrare la nostra passione sportiva. Chi si aspettava, per dirne solo una, che quest’’anno Pulvirenti si mettesse a mangiare allenatori come un qualunque Zamparini?

Un anno fa, di questi tempi, ci concedevamo il lusso di prendere in giro i cugini rosanero appena rovinati in B. Oggi il vento ci sbatte in faccia gli stessi sberleffi. Ci tocca incassarli in silenzio. Sono del tutto meritati.

Siamo stati imprevedibilmente bravi a imitare il Palermo, nel disastro e nella vergogna della retrocessione. Così fossimo in grado di imitarlo nella risalita.


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