Depistaggi, ritrattazioni, insabbiamenti, capri espiatori. La giornalista palermitana scrive nero su bianco il film della vicenda aperta ormai da 24 anni e lo fa partendo proprio dall’omicidio, mettendo tutto in fila come tessere di un mosaico. «Il mio è un contributo a non dimenticare, non ho la pretesa di aver scoperto delle novità»
Il caso Ilaria Alpi nel libro di Serena Marotta «Notti intere a documentarmi e a rabbrividire»
«Penso che si possa imparare tanto da giornalisti come Ilaria Alpi». Ne è convinta Serena Marotta, giornalista anche lei, che ha esordito alla scrittura con un libro dedicato proprio al duplice omicidio della collega e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio nel 1994. Sono passati 24 anni da quel giorno, da quel 20 marzo, ma i colpevoli non hanno ancora un volto, un nome. Motivo che, fra gli altri, ha portato a Ciao, Ibtisam! Il caso Ilaria Alpi, edito da Informazione libera. Una scelta difficile, «nata da un sentimento di rabbia, rispetto a questa storia fatta di ingiustizia», racconta a MeridioNews l’autrice. Tutto inizia dopo la lettura di un articolo su Famiglia cristiana dedicato proprio al duplice omicidio ancora insoluto: «È da lì che ho voluto approfondire l’argomento – dice Marotta -. Ho imparato ad apprezzare Ilaria Alpi per la sua professionalità, per il suo coraggio, prima di questo lavoro non la conoscevo».
Il libro sarà presentato domani alle 16 alla biblioteca Il fiore del deserto, in via dei Cantieri 4, appuntamento conclusivo del Maggio dei libri organizzato in collaborazione con la Biblioteca comunale di Palermo. Ciao, Ibtisam! (traslitterazione della parola araba che significa sorriso) è un’inchiesta, un contributo a non dimenticare. Un film messo nero su bianco che ci proietta al giorno dell’omicidio e a tutto quello che da lì in poi accadde. I depistaggi, le contraddizioni, reperti mai arrivati in Italia, il capro espiatorio tenuto in carcere per quasi diciott’anni. La carne al fuoco non manca e Marotta ha messo insieme tutto, senza tralasciare nessun passaggio, nessuna dichiarazione, nessuna luce e neppure nessuna ombra. Come quella legata all’autopsia della giornalista che il magistrato dell’epoca Andrea De Gasperis non dispose, perché ritenne esaurienti le risposte del medico legale dell’obitorio di turno il giorno della tumulazione al momento dell’ispezione cadaverica esterna (fu estratto un proiettile rimasto nel collo, un unico colpo alla testa, sparato da arma corta da posizione ravvicinata).
Si deve aspettare due anni perché nel ’96 il secondo magistrato assegnato al caso, Giuseppe Pititto, la disponga. I medici incaricati parlano di colpo esploso da lontano e quindi avvalorano la tesi dell’omicidio casuale e non dell’esecuzione; mentre i periti nominati dalla famiglia insistono sul colpo ravvicinato inferto con arma corta. Intanto, sia Ilaria che Miran mostrano i segni di un colpo secco alla testa. E poi l’auto su cui si trovavano al momento dello sparo che non fu trasferita tempestivamente in Italia, i tanti testimoni che non furono rintracciati e interrogati, nessuna corretta custodia dei reperti, smistati in vari laboratori, nessuna direttiva per recuperare i bagagli e i taccuini mancanti, gli appunti di Ilaria, le videocassette di Miran, i filmati girati subito dopo dai colleghi stranieri. Ventiquattro anni, insomma, senza conoscere la verità.
Ci sono stati tre processi e una Commissione parlamentare d’inchiesta per tentare di dare un volto e un nome a chi ha voluto questo duplice omicidio. Due tesi opposte si sono fronteggiate in questi anni: quella della sparatoria conseguente a un maldestro tentativo di rapina, nel quale emerge la figura del capro espiatorio Hashi (il somalo che è stato incarcerato ingiustamente per quasi 18 anni e al quale adesso è stato riconosciuto un risarcimento pari a tre milioni di euro) contro quella, ben più consistente, di un attentato premeditato per bloccare le inchieste che Ilaria stava conducendo in terra somala su traffici illeciti di armi e rifiuti, scomode anche per l’Italia.
«Più si va avanti nella ricerca, documentandosi e approfondendo, più si apre un mondo infinito – continua l’autrice -. Ventiquattro anni di ingiustizie, di depistaggi, di verità dette e poi ritrattate. Quando ho iniziato questo lavoro non pensavo che mi sarei ritrovata a passare notti intere ad ascoltare le registrazioni delle udienze e a rabbrividire…Ribadisco, non conoscevo Ilaria Alpi, ho imparato a conoscerla documentandomi sulla sua morte, sui processi, sulla commissione parlamentare d’inchiesta, leggendo i suoi reportage, ma soprattutto ascoltando i suoi servizi». Una ricerca smaniosa, quella dell’autrice, che l’ha assorbita sempre di più, prendendo campo nella sua professione, la stessa di Ilaria, e nella sua vita. Un pensiero fisso, raccontare cos’era successo, raccontare Ilaria Alpi, raccontare tutto. Ed effetti e reazioni non sono certo mancati. «Il mio è un contributo a non dimenticare, non ho la pretesa di aver scoperto delle novità. Ho messo insieme delle tessere di un mosaico, fatto di depistaggi», racconta.
Intanto, il prossimo 8 giugno si attende la decisione sull’archiviazione del caso sul duplice omicidio. Il 17 aprile scorso durante l’udienza preliminare sono emersi nuovi documenti trasmessi dalla procura di Firenze a quella di Roma. Si tratterebbe di intercettazioni che risalirebbero al 2012 e che riguardano cittadini somali che fanno riferimento all’omicidio della giornalista e del suo operatore.