Il calcio perduto come metafora di stagioni andate. Un viaggio nel secolo scorso, quando c'erano le rivoluzioni e si giocava la coppa Rimet.
Il Carnevale finito…
C’è stato un tempo in cui al calcio si giocava con le ali, gli allenatori potevano fumare a bordo campo, si marcava a uomo, i portieri non avevano i guanti e il dribling era più tecnica che velocità. C’è stato un tempo in cui la coppa del mondo si chiamava Rimet, c’erano le dittature ufficiali e c’era chi le combatteva. Era il ‘900, un secolo fa.
Tutto questo e molto altro trasuda dalle pagine di “E’ finito il nostro carnevale” (Minimum fax, pp250, 12,50), di Fabio Stassi. Un pendolare che lavora in una biblioteca universitaria di Roma, ma vive a Viterbo. È finito il nostro carnevale lo incubavo da quando ero bambino, dalla finale del 1970, ma lho scritto negli ultimi due anni. In treno. Con una Parker. Scrivo sempre a penna perché è la cosa più pratica. Nessuna batteria da ricaricare. Nessun danno se ci sono troppi scossoni. Mi serve solo un quaderno o foglio di carta che riempio ogni giorno di segni e di linee come delle carte geografiche. Il computer è un tempo successivo, il tempo della correzione.
Un libro scritto a penna è già un libro che guarda indietro in un certo modo, che senza pretese riesce a darci un po’ il senso del tempo andato. Lungo tutte le pagine il personaggio principale, Rigoberto Aguyar Montiel, un anarchico romantico, attraversa il tempo diventandone protagonista non in primo piano, ma partecipe, attivo. Nel calcio, come nella resistenza. Il suo obbiettivo dichiarato è rubare la Coppa Rimet che raffigura Consuelo, modella di cui è innamorato e che ha posato donando le sue forme per la statuetta che tutte le nazionali di calcio desiderano e per cui lottano ogni quattro anni nei campionati del mondo.
Tutto il romanzo è in bilico tra eventi storici realmente accaduti, come le partite che Rigoberto, giornalista sportivo di altri tempi, racconta con lucido romanticismo e situazioni verosimili ma improbabili, per cui il dubbio resta sempre teso lungo tutte le pagine. Io credo – spiega l’autore – che ci sia una sentimento della storia che solo il romanzo ci può restituire. Prima ci riusciva raccontando vicende individuali sullo sfondo di unepoca, perché ognuno aveva una sua memoria privata, personale. Oggi abbiamo invece grandi ricordi collettivi, estesi dalla televisione a un numero sterminato di persone, e sono ricordi di notizie, di eventi anche sportivi, di volti e nomi del mondo dello spettacolo è un materiale con cui mi piace lavorare, mischiando le carte, intrecciando i personaggi dinvenzione a quelli realmente esistiti. Ma il calendario di un romanzo è sempre un calendario fantastico. E sempre i personaggi di un libro sono ladri e bugiardi, pur di inseguire la loro per quanto piccola e insignificante verità.
Rigoberto è un generoso, un buono, uno che si inventa giornalista e va al seguito delle squadre sudamericane, uno che viene buttato fuori dai giornali per le cose che scrive, uno che decide di combattere a Cuba, in Spagna, che fa la resistenza in Italia, che vive a Parigi. Che viene spiato e picchiato in Brasile. Un personaggio che vive il suo tempo, con la passione per il calcio e per la libertà. Un po’ in Rigoberto ci si vorrebbe riconoscere tutti. Lautobiografia è una insidia – spiega però Fabio – una trappola, qualcosa da cui cerco sempre di guardarmi, come una cattiva compagnia. Per me Rigoberto ha vissuto veramente la sua vita e le sue avventure, anche se in comune abbiamo il sanguemisto e molte altre cose. Dopo averlo scritto, e pubblicato, mi accorgo tuttavia che questo libro mi somiglia più di quanto io stesso pensassi. Di autobiografico, se così si può dire, ci sono tutte le mie passioni, i miei ideali ma io di certo non sarei mai riuscito a rubare la Coppa Rimet: mi avrebbero preso al primo tentativo.
Già, il sanguemisto di Rigoberto che ha origini siciliane, come lo stesso autore del libro. Il mio rapporto con la Sicilia è quello che si ha con la terra madre. Mio padre è di Palermo, mia madre e la sua famiglia di Castellammare del Golfo. Risalendo a ritroso, un po’ come Rigoberto, ho anche altre radici: quelle albanesi di Piana, e poi Tunisi, Cartagine, una bisnonna catalana… io sono cresciuto a Roma, ma il primo alfabeto che ho imparato a sillabare è stato quello siciliano. In siciliano sono stato allevato e questa è la lingua della mia infanzia. Fino alle elementari non ho parlato che in dialetto e a scuola gli altri bambini mi prendevano in giro per le mie vocali aperte. Ora in Sicilia ci torno ogni estate o a fine d’anno, in una vecchia casa di famiglia, la mia casa degli spiriti. E in Sicilia conservo i miei migliori amici. Da sempre. Ma se anche la Sicilia non l’avessi portata nel sangue, sarei stato comunque siciliano di adozione. Per la sua letteratura. Verga, Pirandello, Brancati, Sciascia, Bufalino, Consolo per me vale l’attacco del Brasile di Pelè. Mi ci sono formato a vederli giocare. E’ una delle formazioni di romanzieri più forti di tutti i tempi.
E la fine? Non poteva che avvenire nel posto più al sur del mondo, dove il nostro eroe ha deciso di finire in solitudine la sua partita.