«Una buona occasione per parlare di argomenti di cui la stampa si occupa poco», dice Graziella Proto, direttrice del mensile antimafia “Casablanca” all’apertura del convegno-dibattito “La Normalità della Testimonianza”. Ma le storie dei testimoni di giustizia Piera Aiello, Ulisse e Felicia D’Aleo, tutti e tre presenti in sala, sono sconvolgenti perché di “normale” c’è ben poco. Ma se fosse normale testimoniare, loro non farebbero una vita clandestina da esiliati. Invece si trovano sospesi tra una scelta di coscienza e una legge, la 45 del 2001, che li avvicina fin troppo ai “pentiti”, i collaboratori di giustizia che «a testimoniare, loro, hanno tutto da guadagnare», come dice Ulisse, testimone per caso di un omicidio di camorra, che per una scelta fatta per senso civico non solo non ha “guadagnato” nulla, ma vive in esilio dalla propria vita da 21 anni.
Il dibattito si svolge davanti a una platea composta da poche decine di persone, all’interno della Camera del lavoro CGIL di Catania. Del resto il tema è conosciuto da pochi, dai diretti interessati, dai loro familiari e dall’associazione antimafia Rita Atria, che da 16 anni si occupa dei “diversamente viventi”, definizione trovata da Angelo Greco, avvocato civilista, nel suo libro “Tra l’incudine e il martello”, inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia. L’incudine è il pericolo di ritorsioni, il martello è lo Stato che rende le situazioni più difficili.
«Un mondo che è sconosciuto agli avvocati, anche penalisti, che è sconosciuto dall’opinione pubblica e dai giornalisti, e ancora più grave è sconosciuto ai magistrati. Per una delle interviste del libro ho incontrato un pubblico ministero e lui è andato subito a parlare dei “collaboratori di giustizia”, non intendendo nemmeno la differenza. La legge 45 del 2001 è sconosciuta a moltissimi magistrati. Ma i due termini indubbiamente si somigliano troppo». Prima del 2001, racconta Greco, c’era addirittura una totale sovrapposizione di “testimoni” e “pentiti” nel termine “collaboratori di giustizia” «tanto che i moduli prestampati per collaborare erano uguali per tutti, con la dicitura “non commetterò più reati”. La legge del 2001 ha cambiato il nome, ma ha mantenuto l’ambiguità».
Tra i problemi pratici che la vita dei testimoni comporta, la gestione delle identità segrete è il maggiore, perché si consegnano i documenti, arrivando a situazioni paradossali in cui non si può avere assistenza medica perché sprovvisti di codice fiscale. «La soluzione, nella lunga attesa dei nuovi documenti che è durata anche anni, è stata quella di rivolgersi ad amici “prestanome”».
Nadia Furnari, autrice nel 1996 del primo dossier sui testimoni di giustizia e fondatrice dell’Associazione Rita Atria, 16 anni fa a Milazzo, si è trovata negli anni ad affrontare l’inefficiente burocrazia che dovrebbe tutelare i testimoni di giustizia, facendo anche da “prestanome” per Piera Aiello, che ha atteso una nuova identità per anni. Ed è lo Stato che dovrebbe tutelarli “nemico” dei testimoni di Giustizia. «Il mio dossier raccontava le storie di due testimoni vivi, e di due testimoni morti. Rita Atria non fu vittima di Mafia, ma vittima dello Stato, perché lasciata sola. “Hanno ucciso Borsellino, vuoi continuare a testimoniare?” le fu chiesto nel 1992. Invece che incoraggiarla e proteggerla, la portarono al suicidio».
«I testimoni di giustizia sono attualmente 72, ma quelli “capitalizzati”, cioè usciti dal programma di testimonianza e “pagati” per il proprio servizio, sono molti di più e ormai senza protezione, e non vengono contati. Eppure nessuno si assume la responsabilità di rilasciare un certificato di “scampato pericolo”».
Nei suoi anni di esperienza con Rita Atria, Nadia Furnari dice che «Il testimone è fatto “eroe”, ma così è distante, noi siamo “pubblico” e mai protagonisti. Una società dove se si parla di “Donne e Mafia” centinaia di donne intervengono, mentre se una donna come Piera Aiello interviene come testimone di giustizia e presidentessa di una associazione antimafia arrivano in pochissimi. Questo mi fa rabbrividire».
Interviene Ulisse che pone alla platea una domanda «Voi avreste fatto lo stesso?». «Ponetevi questa domanda, e rispondetevi. La maggiora parte delle persone tentenna, si gira dall’altra parte. Il testimone esce di casa e vede qualcosa. Guadagna solo nei confronti della sua coscienza. Sul momento ti fanno i complimenti, ma dopo che i “cattivi” vanno in carcere, tu non servi più a nulla, ma hai perso la tua vita e, se va bene, resti vivo in esilio. Vi sto dicendo di non andare a testimoniare? No! Andate tutti invece, così posso tornare a casa! Siamo tutti bravi senza coinvolgerci in prima persona. Vorrei tante persone che facessero da cassa di risonanza, perché fanno cambiare il comportamento della gente. Perché se sono in esilio ci colpate voi». Ulisse parla anche della sua esistenza, prima e dopo la “scelta” «avevo una bella vita, ero benestante, non mi mancava nulla. Non ho cambiato le mie generalità, ma adesso la vita è completamente diversa, lontano da casa, non posso nemmeno mettermi in mostra a lavoro».
Ultimo intervento è quello di Piera Aiello, testimone di giustizia da ormai 20 anni, e diventata presidente dell’Associazione Rita Atria con l’auto-certificazione, e Nadia Furnari a farle da “testimone”. Carmen Valisano, redattrice di Step1 e moderatore dell’incontro, la introduce con delle semplici parole «chi incontra per la prima volta Piera Aiello si innamora».
«Ascoltando Ulisse, dopo venti anni di questa vita, ho nuovamente pensato a tutto quello che ho perso. Ma rifarei tutto, e non è solo retorica. Adesso vivo in una situazione particolare, difficile, ma colgo l’occasione per ringraziare le “quattro pazze” che compongono l’associazione Rita Atria. Prima di loro ero triste, ero sola e non uscivo. Adesso vado nelle scuole e parlo della mia esperienza. Il mio impegno non inizia e non finisce nelle aule di tribunale».
La prima volta davanti agli studenti, come racconta Nadia Furnari, Piera disse «voglio tornare a essere cittadina, per poter pagare le tasse». Gli studenti restarono sbalorditi, ma Piera di quell’episodio dice semplicemente «Pagare le tasse è la dimostrazione che partecipi attivamente a questa società». Piera racconta dei suoi spostamenti, sempre con una identità diversa. «La mattina mi prelevavano da casa alle 7 del mattino, e avevo una nuova identità. E’ capitato spesso che in aeroporto o in altri luoghi mi chiedessero “come si chiama” e io non sapevo rispondere subito. Oppure nei documenti falsi c’era scritto ad esempio che ero nata in Germania. Mi è capitato di incontrare un tedesco, senza saper dire una parola in quella lingua. Ultimamente sono stata anche una extracomunitaria, con la paura che mi rimpatriassero per la legge Bossi-Fini». Persino l’automobile l’ha acquistata con l’aiuto di Nadia Furnari «Nadia ha fatto testamento, scrivendo che la sua macchina in realtà è mia», scherza Piera Aiello con l’amica.
«Una vita fatta di menzogne, con continui cambi di identità, di cui adesso rido, ma la difficoltà è stata di trasformare la commiserazione in positivo».
In sala è presente anche Felicia D’Aleo che è stata tra i primi testimoni di giustizia a Catania. Felicia non parla, ma la sua storia viene raccontata da Graziella Proto. «Nel 1988 lavorava come assistente sociale all’ospedale Ascoli Tomaselli. Nell’omertà persino dei primari si trovò sola a denunciare Pippo “Cavadduzzu” Ferrera che si era impadronito di una stanza all’ospedale, dove aveva persino installato una porta blindata, sorvegliata giorno e notte da uomini armati, e nella riceveva come se fosse nel suo ufficio. Da sola affronta la situazione, e viene picchiata e minacciata. Sono più di 20 anni che per quel pestaggio è invalida, e cerca giustizia, lottando, chiedendo di aver riconosciuto lo status di vittima di mafia. Oggi continua a subire i danni del suo coraggio, con un figlio trasferito in località segreta».
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