Ex cardiologo, da vent'anni sacerdote all'interno dell'ospedale Cannizzaro. Lo abbiamo incontrato all'uscita del reparto di Malattie infettive. Tuta, guanti e una croce disegnata con un pennarello. «È il momento più difficile», racconta
I cappellani ospedalieri e la lotta contro il Covid-19 Parla don Mario: «Non dite che i malati restano soli»
Medici, infermieri e non solo. In prima linea nelle settimane più dure dell’emergenza coronavirus in Italia ci sono anche i cappellani degli ospedali. Figure silenziose, spesso dimenticate, ma con un compito straordinario: quello di fare capire ai pazienti positivi ricoverati «che non sono abbandonati e soli». Don Mario Torracca quando apre le porte ed esce dal reparto di Malattie infettive dell’ospedale Cannizzaro di Catania è quasi irriconoscibile. Occhiali, guanti, copriscarpe e mascherina. Unico segno distintivo la scritta «don Mario» sulla tuta e una croce disegnata con un pennarello. «È stata un’idea di alcuni medici, altrimenti qualcuno non mi avrebbe riconosciuto», commenta.
Dentro l’ospedale è praticamente un’istituzione. Il 6 luglio saranno vent’anni di attività nel nosocomio. «In corsia non avevo mai vissuta un’esperienza del genere – racconta – Spesso siamo chiamati in situazioni drammatiche ma nessuno poteva mai immaginare tutto questo». Prima di diventare prete era un cardiologo. Il coronavirus ha cambiato in maniera drastica anche la sua vita. Nessun fedele in chiesa e messe rigorosamente in streaming, sia nella cappella dell’ospedale che nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie in Carruba di Ognina. «Ho toccato punte di 600 spettatori collegati», scherza.
«Non può assolutamente passare il messaggio che i pazienti Covid-19 restano soli – spiega -. Ho letto pure alcuni articoli in cui è stato scritto che noi diamo “l’estrema unzione” agli ammalati. In realtà si tratta dell’unzione degli infermi». La parte più complicata per i pazienti fa rima con due parole: solitudine e paura. «La leggi nei loro occhi – prosegue don Mario – anche perché non possono entrare i parenti e ci sono pure casi di pazienti ricoverati che hanno i loro cari in altri ospedali. Li capisco anche perché più di dieci anni fa una polmonite virale ha rischiato di uccidermi. La fame d’aria è terribile». Il sostegno del sacerdote si allarga anche agli operatori sanitari. «C’è molta tensione e sono spaventati anche loro. La maggior parte, tra medici e infermieri, sono madri e padri di famiglia che temono di contagiare i loro cari, alcuni non tornano a casa per evitare contatti con i propri figli».
In questi giorni il sacerdote ha incontrato decine di persone. Non tutte però sono credenti. «Qualche giorno fa una ragazza contagiata mi ha detto di essere atea. Ma io le ho detto che ero da lei solo per una parola di conforto. Alla fine mi ha detto di pregare insieme. Il malato – continua – capisce che la mia è solo una presenza di amore e affetto. In fondo credo che in questo momento noi cappellani d’ospedale abbiamo una grande responsabilità».
Don Mario ha paura di stare in corsia? «Noi sacerdoti siamo liberi, non lascio nessuno – conclude – Sono sereno nonostante il periodo sia molto complicato. Quando mi fanno entrare nel reparto sono felice di compiere il mio dovere, capisco che si rischia ma non possiamo tirarci indietro».