Grigio perla. Seconda tappa: La Coruña

Era una noite de lúa
Era una noite clara,
Eu pasaba po-lo río
Da volta da muiñada.
Topei unha lavandeira
Que lavaba ộ para da y-agua.
Ela lavaba no río
E unha cantiga cantaba:
-Moza que ves do muiño
moza que vás po-la estrada.
Axúdame a retorcer
Minha sábana lavada.

Il trottare del treno e l’alito di vento fresco che entrò dal finestrone di legno svegliarono per un po’ il mio sonno. Lì, aggomitolato sul sedile blu, riuscii magicamente ad unire, dentro la testa, il passo sordo della locomotiva alla gaita galiciana: la cornamusa tradizionale che oggi ricuce la storica distanza culturale tra i moderni galiziani e i Galati, popolazioni di ceppo celta.

E così, provai a scordarmi di tutto, provai a chiudere gli occhi, disattivare quella coscienza che collabora coi contesti storici, geografici ed emozionali riuscendo a vedermi per un po’ in Cornovaglia, tra le vegetazioni basse e le colorazioni opache, sbiadite ma riposanti. Dove il mare è celeste e le cornamuse spezzano il vento. La costa nord-ovest della Spagna ha quelle stesse caratteristiche insulari, è cruda, scolorita ma penetrante e io la seguivo con gli occhi e col sonno che, probabilmente, me la dipingevano ancor più di mistero. Ed il cielo era sempre quello, quello pallido, quello “grigio perla” e timido, quello che non detta un’emozione ma la impone con pignola presunzione.

Lungo il cammino incrociammo svariati Cruceiros* (croci di defunti che s’oppongono al forte vento delle coste) poi vegetazioni scure e gli Hórreos. Questi ultimi mi fecero tirare su dalla mia posizione da sonno ed affacciare occhi ed attenzione fuori dal finestrino. Apparivano come strane costruzioni di pietra sollevate dal suolo come palafitte ma fiere come templi greci o giù di lì. Così mi girai su me stesso alla ricerca di qualcuno lì dentro allo scompartimento che potesse spiegarmi cosa fossero stati quei casolari vecchi e spigolosi. Mi rispose una ragazza: «sono granai usati dai raccoglitori per conservare i frutti lontani dal calore e dai top» ed allora incassai la spiegazione e rituffai il mio sguardo su quella Fisterra, (“Fine della terra”) ed il suo Capo che, come ogni limite della terra, appare stanco e provato dalla forza corrosiva degli oceani che esercitano la propria pressione battagliera. 

Eccoci alle Rías da costa da morte, aguzze come coltelli, spigolose come fiordi, selvagge, con una spaventosa musica di sottofondo suonata dal mare che si scaglia con tutta la sua veemenza contro le rugose pareti scogliere. Carlotta si svegliò in quel momento e mi sorrise, ma poi s’accigliò presto quando scorse da dentro lo spettacolo espressionista di fuori. Mi rimproverò parecchio di non averla svegliata. Non risposi nulla, rimasi in silenzio ma, lo ammetto, fui egoista, perchè era il massimo averla leggermente adagiata ed addormentata sul sedile dello scompartimento mentre le sue guance venivano colorate dalla luce giallastra delle terre del nord.

Poi arrivammo a La Coruña o A Coruña (la denominazione galiziana) e subito un vento freddo c’investì. Consumammo due cortados bollenti e ci riversammo in Calle de S.Andrés. Quì la città ci riservò una piacevole sorpresa: sia alla nostra destra che alla sinistra si poteva scorgere il mare in lontananza, perchè La Coruña è una lingua di terra che galleggia sull’Oceano Atlantico ed investita, così, da quegli odori di mare che sanno essere inconfondibili ma, soprattutto, appare come una coppia di chilometrici lungomare giallastri che contengono a fatica il centro abitato.

Il pomeriggio era opaco ed una brezza gelida si scontrò contro le nostre ossa. E a noi non rimase che entrare in un bar in attesa di raccogliere pensieri e riscaldarci un po’ visto che qualche raggio di sole dal fare demenziale cominciò ad entrare ed uscire dal palco illudendoci e deludendoci continuamente. Poi però si stancò dei giochi e si fermò su di noi che a quel punto, approfittandone, ci portammo alla piazza principale della città, quella dedicata all’eroina popolare María Pita.
Questa, considerata come una specie di Giovanna D’Arco o giù di lì, salvò la città grazie ad un colpo di cannone che avvertì il popolo dell’arrivo del malvagio pirata Drake e dei suoi uomini e così appare raffigurata svettante sulla piazza mentre il suo braccio forte afferra una lunga lancia.

In giro la gente parlava uno strano spagnolo, dondolante, musicale e speziato dal gallego. La lingua originale di questi luoghi ha una storia gloriosa alle spalle perchè insieme al portoghese formava una letteratura importante ed antichissima. Oggi il rapporto tra gallego e castellano appare quello di un bilinguismo armonico e pacifico dove oltre l’80% della popolazione parla entrambi nelle diverse occasioni della vita sociale. A tratti suonava napoletano a tratti portoghese brasiliano, in tutti i casi m’affezionai a quella lingua così colorata e divertente anche grazie alla telenovela che in camera ci fece addormentare per un po’.

Il pomeriggio uscimmo dalla pensione alle 17 con una gran fame e con un buon clima fuori. Così, attraversato il quartiere vecchio con il bel trittico di chiese romaniche Santa Bárbara, Santo Domingo, SanTiago dove, quest’ultima, con il suo bel rosone “Santiago Matamoros” ci intrattienne per qualche istante in più delle altre, arrivammo presso la Avenida de la marina per mangiare un boccone.
Ci sedemmo ad una tasca (trattoria) ed ordinammo della empanada (pizza fritta farcita di peperoni rossi e sardine) e due scodelle di caldo gallego, entrambi specialità galiziane ed entrambi storiche portate dei pellegrini in cammino verso Santiago de Compostela. Il caldo, in particolar modo, è una di quelle portate che definirei “piatto unico” perchè succulente zuppa a base di segale e carne e tozzi di pane come elemento complementario. L’anziano propietario di quel piccolo locale ci portò in più un piattino di mariscos che in Galizia rappresentano la portata nazionale: gambas, langostinos, cigalas, almejas. Noi accettammo la gentile offerta già però con pancia piena ed appagamento.

Dopo pranzo, nelle vicinanze del Castelo de S.Antón, ex roccaforte, ex prigione ora Museo Archeologico, salimmo sul tram di legno famoso per il suo tragitto costiero. La corsa fu piacevole, i profumi del mare sventolavano sui nostri volti mentre il treno dalle corde rosse marciava ad una perfetta velocità. Da lì riuscimmo a capire finalmente perchè La Coruña fosse chiamata la “ciudad de cristal” (città di vetro): lungo la costa della Playa de Riazor scorgeremmo dei palazzi bianchi senza balconi ma con dei finistroni a veranda che subivano il toccante effetto cromatico delle acque celesti che rendeva le colorazioni la città di varietà cerulea. ***

Il tram frenò davanti allo splendido faro della città e noi scendemmo. La Torre de Hércules è il faro romano di oltre cento metri che, ancora, illumina le imbracazioni nella notte. C’è chi dice sia il faro più longevo della storia europea (II sec. d.C.), e, secondo la mitologia, fu il simbolo del trionfo di Hercule sul gigante Girone a cui tagliò la testa e la sotterrò.

Noi arrivammo alla piazzolla del faro respinti da un vento fortissimo e sorpresi da una pioggia battente, giungere all’entrata fu complicato, ma ci riuscimmo dopo che i nostri vestiti fradici ci si appiccicarono addosso.
Quello fu l’ennesimo esempio di come le condizioni atmosferiche atlantiche sembrano essere affette da bipolarismo e subiscano così impressionanti sbalzi d’umore.

Decidemmo di fermarci ai bagni per asciugarci i capelli e e vestiti con il getto d’aria calda, poi Carlotta prese due tè al limone di macchinetta che sorseggiammo guardando il putiferio che si stava sfogando fuori. Finimmo i tè ed entrammo alla torre, dove raggiungemmo la testa dopo oltre cento cinquanta scalini ripidissimi ed umidi. In cima, lo spettacolo era meraviglioso: il cielo livido piangeva a catinelle e la terra aspra raccoglieva la sua acqua, l’oceano era agitato e color cenere e all’orizzonte una sbavatura di sole dorava i colori dell’intorno. Le acque la facevano da protagonista con il loro movimento affannoso e scoordinato ma di una forza devastante. Io, Carlotta e gli altri turisti ci appiccicammo al corpo del faro per evitare che il forte vento urlante ci scaravantasse di sotto.

Scendemmo dalla torre e ci avviammo di nuovo verso il centro, non prima però di aver fatto una sosta in una charcutería dove comprammo una forma di tetas, formaggio tipico delle parti di Santiago che ha l’inequivocabile forma di seni. La luce calò verso le 21:30. La città, però, non ne risentì perchè i suoi lungomari erano ora di una tristezza commuovente ed il vento, sfogatosi abbastanza durante il giorno, coccolava ora i nostri capelli e le nostre guance. Alla chiusura degli occhi per la notte corrispose la fine della musica della gaita e del nostro  soggiorno in Galizia, donna dal manto nero ma dal cuore d’oro.

CONTINUA…

Riccardo Marra

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