Condannata per 416 bis, si pente nel 2005 e racconta ai magistrati soprattutto il suo rapporto coi fratelli Leonardo e Vito, boss indiscussi di Partinico negli anni ’90. «Sapendo chi erano entrambi, immaginavo chi fossero le persone che li andavano a trovare»
Giusy Vitale: storia di una donna d’onore suo malgrado «I miei fratelli si fidavano ciecamente di me, purtroppo»
«Anche se ero sposata stavo sempre coi miei fratelli, li accompagnavo dappertutto e loro si fidavano ciecamente di me…e questo mi addolora». È una fiducia che infatti, finiti entrambi in carcere, l’ha costretta a prendere le redini della famiglia mafiosa di Partinico a fine anni ’90. Ma Giusy Vitale di mafia non sapeva molto. Conosceva qualche nome, qualche volto, ma era estranea a dinamiche e disegni criminali. I fratelli Leonardo e Vito avevano fatto di tutto per tenerla fuori. «Giuseppì…ora vattinni subito», le dicevano tutte le volte che lei li accompagnava a qualche riunione coi padrini. Ma quando nasci in una famiglia come quella dei Vitale, restarne fuori è un privilegio che, quando c’è, non dura per sempre. Viene arrestata anche lei, infatti, per 416 bis nel 1998. È una dei corleonesi, una fedelissima di Totò Riina, nei disegni dell’accusa, che teneva in mano le redini di Partinico e dei paesi limitrofi. Un dominio, il suo, che non dura nemmeno lo spazio di un anno. Viene arrestata non troppo tempo dopo la fine della latitanza del fratello Vito, di cui non si avevano notizie dal ’95, e per il quale lei è stata il ponte di collegamento con il fratello già in carcere, Leonardo. «Ero il tramite fra loro due», racconta ai giudici di Caltanissetta, che l’hanno voluta sentire nemmeno un mese fa durante il processo a carico di Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Ma sapeva che era solo questione di tempo prima che il dominio della sua famiglia venisse spazzato via definitivamente. «Eravamo nel mirino, perché era rimasto mio fratello da solo – dice, alludendo a quello latitante -, in quegli anni ne sono successe di cotte e di crude. Mio fratello girava, era sempre in Sicilia, si è spostato solo una volta per andare a Bologna, l’ho accompagnato pure io, ma tutto il resto del tempo lo ha passato qui, spostandosi tra Montelepre, Carini, Torretta, Cinisi, Terrasini, e un breve periodo anche a Messina, da quelle parti là». Una latitanza neanche troppo segreta, verrebbe quasi da dire, restando sempre a poca distanza dai suoi luoghi di potere. Mentre i due fratelli sono avvezzi al carcere, da cui negli anni sono passati più volte, Giusy rimedia la sua prima condanna definitiva solo nel 2002 e l’anno dopo viene accusata anche di essere stata la mandante addirittura di un omicidio, quello del boss Mortadella, omonimo di Salvatore Riina, ma originario di Partinico. Inizia a collaborare con la giustizia nel 2005. Conosce i segreti della sua famiglia, di quei fratelli che pur tenendola fuori in qualche modo l’hanno coinvolta nei loro affari. «Io rapporti con uomini d’onore della provincia di Trapani? Più che rapporti, ero a conoscenza di ordini e disposizioni dei miei fratelli. Non ho mai visto personalmente Matteo Messina Denaro, so che ha avuto contatti con loro due».
Non sa neppure, ad esempio, di essere stata a pochi passi da lui nella famosa riunione tra boss organizzata a Valguarnera, in una loro tenuta di campagna dove avevano le stalle con gli animali e dove accompagna personalmente in auto il fratello Vito: «Solo dopo ho saputo che c’erano tutti i capi mandamento della zona, Riina, Bagarella, Provenzano, Melodia, a quanto pare anche Matteo Messina Denaro che faceva le veci del padre Francesco che stava male, mi ricordo che furono i miei fratelli a spiegarmi questo dettaglio, anche se non si era sicuri che il figlio avrebbe in futuro preso il posto del padre per guidare la famiglia mafiosa di Trapani – racconta, rivelando più di quanto avrebbe effettivamente voluto sapere -. Fu Bagarella a spiegarlo a sua volta ai miei fratelli». Ma è Nino Geraci il boss a cui si deve l’ingresso ufficiale dei fratelli Vitale dentro Cosa nostra e, in maniera indiretta, anche della sorella Giusy. «Lui ha affiliato Leonardo, che a sua volta ha tirato dentro anche Vito, mentre l’altro fratello, Michele, non era cosa, lui era a Bologna con la sorveglianza speciale – continua la donna -. I miei fratelli a poco a poco si sono fatti strada e la cosa ha cominciato a non stare più bene allo stesso Geraci, sono nati dei disguidi. Ho chiesto più volte a Leonardo il perché di questa scelta di vita. “Quando ti trovi di fronte alla scelta tra la vita degli altri e la tua vita, scegli di vivere”, mi aveva risposto». Gli screzi fra i Geraci e i fratelli Vitale iniziano tra gli anni ‘80 e ‘90, gli anni di guerra, «nei nostri paesi non so quanti omicidi ci sono stati».
Ma dalla loro hanno due nomi di un certo peso, quelli di Riina e Bagarella. E Giusy? «All’epoca ero una ragazza, avevo solo 20 anni, ero sposata, avevo la mia vita, mi limitavo ad accompagnare i miei fratelli in auto – racconta lei stessa -. Entro a far parte di Cosa nostra nel ‘98, divento direttamente capo mandamento, gestivo tutto, di Partinico così come dei paesi limitrofi, perché non c’era più nemmeno Giovanni Brusca, mio fratello era stato arrestato, nessun altro poteva prendere quel posto. A Partinico c’era la mia famiglia, la famiglia Vitale». E quindi lei. Che appare come l’erede perfetta di quanto seminato da Leonardo e Vito. «Mi ritrovavo spesso ad assistere a certe discussioni o situazioni per le quali non si ponevano il problema della mia presenza. Non mi portavano alle riunioni, ero una ragazzina di 20 anni, non avevano bisogno di me, io subentro solo all’arresto di tutti e due, perché ero l’unica che conosceva tutti i fatti, perché stavo sempre dietro a loro ma non partecipavo a riunioni, li lasciavo nei posti, poi li andavo a prendere, ma non chiedevo mai “chi era quello o quell’altro ancora”, non posso rispondere su cose che non ho vissuto direttamente».
Pur non chiedendo, però, Giusy qualche idea nel tempo se l’è fatta. «Sapendo chi erano i miei fratelli, immaginavo chi erano le persone che li andava a trovare: latitanti, persone che non potevano stare tanto in giro. E poi mi chiedevano di portare delle cose, del cibo ad esempio, ma senza darmi una quantità precisa, quindi capivo che doveva andare a trovarli qualcuno, e poi le continue raccomandazioni di mio fratello Leonardo, per non chiedere, non guardare, per non rimanere troppo a lungo lì dove li portavo». Ma purtroppo lei capisce benissimo, e tirarsene fuori, al momento della chiamata alle armi, è stato dal suo punto di vista una scelta impossibile.