La procura aveva chiesto di chiudere il caso della migrante che sarebbe arrivata in Italia con due gemelli in grembo, per poi partorirne uno. A sostegno dell'ipotesi un primo referto al Santo Bambino e gli esami effettuati in Libia. Il gip adesso ha accolto la posizione della difesa chiedendo l'acquisizione dei documenti dell'ospedale di Tripoli
Giallo del neonato sparito, ci sarà nuova indagine Verranno sentiti i medici di Catania e Caltagirone
«Le indagini non sono state fatte in maniera esaustiva». Sono le parole che usa il giudice per le indagini preliminari Salvatore Ettore Cavallaro per respingere la richiesta d’archiviazione, firmata dalla procura di Caltagirone, sul giallo che riguarda il parto di una giovane mamma nigeriana. Arrivata dalla Libia in Sicilia, le era stata diagnosticata, almeno in un primo momento, la presenza di due bambini in grembo, ma dopo pochi giorni a Caltagirone a nascere sarebbe stato un solo figlio. Il condizionale è d’obbligo perché l’inchiesta, per il momento a carico di ignoti, ipotizza il reato di omicidio colposo. Il giudice ha scelto di accogliere la richiesta d’opposizione del legale della donna, l’avvocato Tommaso Tamburino. Incaricato dall’amministrazione giudiziaria del Centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, struttura dove la 26enne aveva soggiornato dopo il suo arrivo in Italia.
Per rendere meno sfumati i contorni di questa storia, Cavallaro non si è limitato a indicare, genericamente, il proseguo dell’inchiesta. Il giudice ha dettato la linea da seguire agli uffici giudiziari attraverso una serie di prescrizioni. Si parte con l’acquisizione delle cartelle cliniche relative alla gravidanza della donna prima della traversata del Mediterraneo, documenti che dovrebbero essere conservati negli archivi dell’ospedale Al Bayan di Tripoli. Necessaria anche la nomina di una equipe di periti, «operanti fuori dalla Regione Sicilia», per chiarire carte alla mano la natura gemellare o meno della gravidanza.
Il vero nodo di questa vicenda è proprio legato a quest’ultimo passaggio. La mamma arriva in Italia a dicembre 2016 sostenendo di portare due gemelli in grembo. Dopo lo sbarco si decide di sottoporla a un controllo e per questo motivo viene condotta all’ospedale Santo Bambino di Catania. I medici diagnosticano effettivamente la presenza di due feti «in regolare evoluzione», ma la stampa dell’esame ecografico non verrà mai allegata al referto finale. I sanitari monitorano anche i battiti cardiaci, a distanza di 35 minuti l’uno dall’altro. Nonostante la data del parto sia imminente, la migrante rifiuta di restare nel nosocomio e torna così al Cara.
Tre giorni dopo, però, le contrazioni sono tali da rendere necessario il ricovero all’ospedale Gravina di Caltagirone. Una nuova ecografia segna il primo colpo di scena. Il documento, secondo la ricostruzione, attesta la presenza di un solo bambino. A questo si aggiungono una serie di complicazioni che rendono necessario un parto cesareo con anestesia spinale. L’epilogo, poco dopo mezzogiorno. La donna, sicura di essere arrivata con due feti in grembo, partorisce un solo figlio. Che fine ha fatto l’altro? La mamma decide di denunciare lo smarrimento ai carabinieri. A sostegno di questa tesi c’è anche la testimonianza di un’amica della ricoverata, che racconta che dalla sala parto un’infermeria sia uscita con due bambini dalla carnagione nera dentro una culla. «Occorre individuare e sentire – continua il giudice – le dottoresse che insieme al medico hanno eseguito le ecografie il giorno del ricovero all’ospedale Santo Bambino di Catania». Dovranno essere interrogati pure dieci camici bianchi. «Il personale infermieristico, ostetrico e medico dell’ospedale Gravina che hanno partecipato, a vario titolo, al parto cesareo», specifica il gip. Verranno così messe da parte quelle «barriere linguistiche», usate come trincea per le mancate risposte dal presidio calatino.
La procura, con il fascicolo affidato al magistrato Vincenzo Galvagno, basandosi su una perizia di parte ipotizzava la possibilità di una «diagnosi errata», effettuata nel nosocomio etneo. L’intervallo tra i due tracciati, circa 35 minuti, «non è stato motivato e non ha giustificazioni dal punto di vista clinico», scriveva il sostituto procuratore per motivare la sua scelta. Galvagno non era convinto nemmeno dell’opportunità di richiedere incartamenti in Libia, Paese dove «è più alto il rischio di errore di un esame diagnostico». Adesso una nuova indagine, con il termine fissato in 90 giorni, potrebbe chiarire i dubbi che ruotano attorno a questa incredibile storia.