Gaza, «prigione a cielo aperto»

«Sono qui per parlarvi di come stanno realmente le cose in Palestina. Milioni di persone sono in carcere e, nonostante la chiusura delle frontiere, cercano di vivere in maniera normale». Queste le parole di Majed Abusalama, rappresentante dei giovani di Gaza, intervenuto tramite video-conferenza, all’incontro Gaza: la prigione e il massacro. Quale futuro?, organizzato dalla “Convenzione per la Pace” di Catania e ospitato lo scorso mercoledì dall’aula A1 del Monastero dei Benedettini.

Majed Abusalama è un operatore internazionale di pace e un giornalista free-lance. E’ inoltre impegnato con altri educatori nell’organizzazione di corsi e animazioni per i bambini di Gaza. Avrebbe dovuto essere presente di persone alla conferenza, per parlare della sua esperienza rappresentativa di tutta la popolazione, ma non c’era. Il motivo della sua assenza lo spiegano gli organizzatori dell’evento: «questa assenza ha il sapore dell’amarezza, che diventa ancora più grande perché paradigma della libertà fisica e mentale negata. Majed aveva ottenuto tutti i visti necessari, ma le porte di Gaza sono sbarrate da più di un mese. Si tratta di una prigione a cielo aperto, con tanto di carcerieri e secondini».

«Durante il giorno la corrente elettrica manca per circa 8/9 ore. Alle frontiere non passano il gas e i carburanti, quindi siamo costretti a trovare modi alternativi per creare energia – racconta Majed. – A causa della guerra molte famiglie sono state distrutte, e oggi ci troviamo a vivere in una casa con 30 o 40 persone tra parenti e amici in difficoltà, dormendo appena un paio d’ore a notte perché sempre in allerta».

Si sofferma poi sui giovani spiegando come la loro situazione sia davvero difficile: «i giovani, che rappresentano più del 60% della popolazione, oltre ad andare a scuola devono trovarsi un lavoro per poter mantenere prima di tutto se stessi e i loro studi ma anche intere famiglie. Per questo ogni giorno si trovano a dover inventare altri modi per sopravvivere». E alla domanda «cosa possiamo fare per cambiare la situazione?» Majed risponde che «il parlamento è composto da 200 giovani che si auto-tassano per mezzo dollaro al mese per poter fare dei piccoli progetti. Ma questo non è abbastanza. Non abbiamo soldi ma tanta energia per portare il messaggio della gente di Gaza. Ai giovani italiani chiediamo aiuto e solidarietà. Lavorando insieme possiamo promuovere la pace nel mondo. Finché ci sono persone con speranza e principi qualcosa si può cambiare».

Nel corso dell’incontro don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale del movimento per la pace Pax Christi, ha presentato il suo libro-testimonianza Un parroco all’inferno, basato sulla tragica e devastante esperienza del sacerdote Abuna Manuelle durante il massacro del 2008. «E’ stato fatto fuoco su un formicaio. Si trattava di una guerra contro chi non poteva fuggire – spiega lo stesso parroco in una video-intervista. – Non eravamo cristiani o palestinesi, eravamo uniti per vivere. Perché non c’è scelta tra morte e schiavitù». Capovilla parla anche dell’operazione “Piombo fuso” iniziata nel dicembre 2008, quando ”in pochi minuti sono state sganciate tonnellate di missili. E mentre nel resto del mondo in cielo brillavano fuochi d’artificio, su Gaza pioveva fuoco. Cadeva fosforo bianco che non solo brucia i corpi, ma penetra dentro. Perché anche quando sembra non essercene più, in realtà si riattiva a contatto con l’ossigeno e trasforma gli uomini in torce umane».

Riferendosi infine a Gaza, don Capovilla ci spiega come «dal 2005 non è più sotto assedio. I coloni si sono ritirati. La terra è stata restituita ai suoi proprietari, ma la chiave rimane ad Israele. Dentro non c’è più esercito ma tutto intorno è sigillato. Dal confine non passa più nulla e nessuno».

«Una delle possibilità per uscire da tutto questo è la resistenza non-violenta giorno dopo giorno» conclude Nandino Capovilla. Un esempio di speranza è dato anche dalla Marcia Mondiale per la Pace, di cui ha parlato Roberta Ravani: «si tratta di un’iniziativa partita dalla Nuova Zelanda, della durata di un anno, che si concluderà in Argentina. Non è solo un passaggio ma un progetto concreto, dato che ovunque sia passata si sono attivate iniziative collaterali di tutti i generi. Purtroppo – conclude Ravani – non ci hanno fatto entrare a Gaza. Ma non ci arrendiamo e non li lasceremo soli».


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