Fuoricircuito: Il colore del melograno di Sergej Paradjanov

Titolo: Il colore del melograno (Brotseulis kvaviloba), anche noto come Sayat Nova
Regia: Sergej Paradjanov
Soggetto: Sayat Nova, Sergej Paradjanov
Sceneggiatura: Sayat Nova, Sergej Paradjanov
Fotografia: A. Samvelyan, Martyn Shakhbazyan, Suren Shakhbazyan
Montaggio: Sergej Paradjanov
Musica: Tigran Mansuryan
Scenografia: Stepan Andranikyan
Costumi: Elene Akhvlediani
Interpreti: Sofiko Chiaureli, Melkon Aleksanyan, Vilen Galstyan, Georgi Gegechkory
Produzione: Armenfilm Studios
Origine: Urss 1968
Durata: 75’

Per la quarta stagione della rassegna cinematografica Fuoricircuito, organizzata dal Centro culture contemporanee Zo in collaborazione con le facoltà di Lingue e Lettere dell’Università di Catania, è stato proiettato mercoledì 28 Marzo “Il colore del melograno”, film di Sergej Paradjanov (1924-1990), uno dei più importanti registi cinematografici armeni.

Il soggetto di questo lungometraggio surrealista, da molti considerato il capolavoro del suo autore, è la biografia di Sayat Nova, trovatore armeno del XVIII secolo, mostrata attraverso solenni quadri figurati che segnano le fasi della vita di uno dei poeti più celebri della storia della letteratura e della musica armena e pancaucasica. Sayat Nova, infatti, oltre che in armeno, compose canti anche in georgiano e in turco-azeri e, per questo, è visto ancora oggi come simbolo di fratellanza e convivenza pacifica tra i popoli del Caucaso.

Paradjanov non racconta in maniera tradizionale la vita del menestrello, ma crea una serie di episodi, statici come quadri, surreali ed evocativi, che mostrano le diverse fasi della sua esistenza: infanzia, adolescenza, servizio del principe, amore proibito, convento e morte. Queste immagini non rappresentano delle scene realistiche, ma sono delle sublimazioni pittoriche del reale in cui la presenza del tempo si intuisce solo perché Sayat Nova è incarnato da persone di età diversa.

È forte l’uso surrealista e simbolista di scene, oggetti e colori: così ecco, in uno dei primi “quadri”, tre melagrane sanguinanti lentamente su una tela bianca che a poco a poco si imbeve di rosso e, di seguito, un pugnale che sanguina su una tela bianca. Legame che, da un lato, richiama la tecnica di uno dei maestri del cinema russo degli anni Venti come Eizenstein e, dall’altro, il simbolismo del rosso, della passione e della morte che corre lungo tutta l’opera.

Il regista utilizza e parte dallo spunto biografico per fornire un’illustrazione che va oltre i limiti della vicenda individuale. Ne Il colore del melograno parla, così, dell’artista e del ruolo che questo ha all’interno della società in cui vive ed opera. Rivela, attraverso vere e proprie icone animate e visioni oniriche, la lacerazione di un essere che aspira alla libertà, all’assoluto ed è condannato alla sofferenza e alla detenzione. Condizione che egli stesso vivrà: nel 1974 verrà rinchiuso per cinque anni in un campo di prigionia per omosessualità e per il carattere “antisovietico” delle sue opere.

Qualsiasi tentativo di avvicinare il film alla realtà storica della biografia è vano perché esso è un “lungo poema in forma di affresco diviso in quadri”. Un affresco che racconta simbolicamente un’Armenia senza tempo, presentata sullo schermo attraverso i suoi usi e costumi, i suoi paesaggi e la sua lingua, resa visibile su steli e in libri, oltre che udibile nei canti e nelle citazioni dei versi di Sayat Nova. Il cineasta armeno attinge alla sorgente del folklore e della tradizione liturgica della sua terra, creando immagini suggestive in cui i personaggi si muovono appena, come consapevoli di agire all’interno di una cornice ben limitata. Si dà vita, così, ad una serie di tableaux in cui si fondono perfettamente usanze e rituali religiosi armeni con versi e scene della vita del cantore.

Proprio perché fatto di quadri, il film è praticamente muto. La colonna sonora è composta da rumori e musiche spesso corali e liturgiche, da suoni di voci utilizzati come musica. Non ci sono dialoghi, solo un’intermittente voce fuori campo.

L’opera fu vittima della censura: venne immediatamente ritirata dalle autorità sovietiche per “estrema deviazione del realismo russo”. La presenza di scene mistiche, di suggestioni erotiche e religiose impose pesanti tagli e modifiche. Venne distribuita solo tre anni dopo la sua realizzazione, dopo esser stata rieditata da un altro regista, Sergei Yukevitch, che la divise in capitoli staccati ristabilendo l’ordine cronologico che era stato abolito da Paradjanov nel suo montaggio di “immagini mescolate”. A questa versione si diede un nuovo titolo, Tsvet Granata, che è quello che noi traduciamo con “Il colore della melagrana”, ed è la versione che abbiamo potuto ammirare grazie alla rassegna di Fuoricircuito.

Agata Pasqualino

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