Fuoco incrociato

C’è una guerra chiassosa e colorata raccontata da immagini che attraverso il filtro degli infrarossi sembrano quasi innocue: spari inoffensivi, da festa patronale, senza uomini né vittime. C’è una guerra tiepida e indolore, che si sviluppa attraverso le cifre dei comunicati ufficiali: cento, mille, diecimila morti. Numeri – invece di persone – attraverso i quali si perde il senso reale di una violenza. E c’è un’altra guerra, raccontata camminando lungo gli stessi sentieri percorsi dagli iracheni: misurandone il dolore, la rabbia, a volte – poche volte – la speranza.

 

Ci sono due guerre, dunque. O meglio: due modi di raccontare la stessa Baghdad e due modi di fare giornalismo. Uno è quello dei giornalisti embedded, diligenti addetti stampa dell’esercito: scrivono prudentemente, in punta di penna, quello che vedono dalla prospettiva  miope che i militari impongono loro. Scrivono e, volentieri, si censurano. Ogni tanto – quando fanno trapelare qualcosa di inopportuno – vengono espulsi: come Kevin Sites, reporter della Nbc, colpevole di aver ripreso e diffuso le immagini dell’esecuzione di un ferito a Falluja, da parte di un marine.

L’altro giornalismo è quello di Giuliana Sgrena, di Enzo Baldoni, o di altri che hanno preferito scrivere delle donne e degli uomini dell’Iraq, attraverso i loro volti e le loro parole. Rischiando, spesso. Spesso pagando il prezzo del rischio. Sempre, comunque, convinti che tale rischio fosse la cifra del proprio mestiere, la posta da scommettere per raccontare una verità senza filtri. Né martiri, né eroi: semplicemente giornalisti.

 

Ci sono molti modi, infine, per leggere il libro della Sgrena. La cronaca di una prigionia, scandita da una percezione irreale del tempo e degli eventi che si consumavano lontano, in Italia. Oppure la testimonianza di chi è stata vittima di due violenze opposte: quella da parte della resistenza irachena, prima, durante il rapimento; quella da parte dell’esercito statunitense, dopo, durante la liberazione. Noi preferiamo leggerlo come un manifesto di quello che può e deve essere il giornalismo: l’antica abitudine di percorrere a piedi i luoghi da conoscere, di confrontarsi volto a volto con i testimoni di una realtà da scoprire e, successivamente, da raccontare.

In viaggio con Erodoto è il titolo di un libro di Ryszard Kapuscinsky, uno dei maestri del reportage: ci restituisce l’idea del viaggio, di suole consumate, di polvere sugli abiti, l’idea di un giornalismo senza ingombranti protezioni, fuori dagli hotel a cinque stelle, in mezzo – detto con una frase sin troppo utilizzata ma raramente applicata – alla gente. Di questa idea di giornalismo ci sembra che la Sgrena si sia fatta interprete, nel raccontare la “sua” guerra senza pudori. Persino nel dichiarare la propria militanza, nel manifestare la sua opposizione all’invasione alleata senza che ciò la costringa, però, a sfumare sulla violenza dei resistenti iracheni.

 

Su una cosa non siamo d’accordo con Giuliana Sgrena. Sulla sua disillusione quando scrive nelle ultime pagine del suo libro: “[…] il sequestro mi ha fatto constatare che non ha più senso rischiare per informare. Il sequestro è stata la riprova che la resistenza armata (o almeno una parte) non è interessata ad avere un rapporto con l’esterno, visto che tratta tutti gli stranieri da nemici”. Una critica lieve alla giornalista, una critica che non vuole banalizzare l’esperienza tragica del suo rapimento e della sua, sanguinosa liberazione. Una critica, forse, egoistica: non da addetti ai lavori. Da lettori che, semplicemente, del giornalismo della Sgrena sentono di avere ancora bisogno.


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