Termina il ciclo di appuntamenti iniziato che ha condotto sino al 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio. Sono tanti i consensi riscossi in città, all’insegna del ricordo di quei 57 giorni trascorsi dal 23 maggio al 19 luglio. Salvo Palazzolo: «La normalità è un percorso. Ritroviamo le parole rubate»
Franco Gabrielli chiude gli incontri in Questura «Oggi criminalità più subdole e meno percettibili»
«La mia vita è rimasta lì, in via D’Amelio». Non lo dice di persona tenendo un microfono in mano. No, Antonino Vullo, l’unico agente sopravvissuto alla strage del 19 luglio 1992, lo racconta attraverso un video commemorativo. Immagini e interviste che chiudono ufficialmente il ciclo di appuntamenti che ha aperto le porte della questura ai cittadini, per raccontare quei drammatici 57 giorni e i 25 anni che hanno cambiato Palermo. «Un percorso di memoria, di ricordo, di riconciliazione, ma anche di riscatto e di ferma condanna verso la mafiosità», lo definisce il questore Renato Cortese. Quei due giorni li ricordano tutti, ogni siciliano sa cosa stava facendo, dove si trovava. Ma lo stesso vale anche per chi, a quelle morti, le ha vissute da molto più lontano. «Mi ricordo benissimo di quei due giorni. Solo che i morti c’erano stati anche prima, c’era stata la mattanza fra il ’79 e l’83 e altri fatti di sangue, eppure da fuori era visto tutto come normale, Palermo era una città di mafia e di mafia si muore», racconta il giornalista Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera.
Il ’92 cambia le sorti della storia, cambia il sentire comune, è l’anno della consapevolezza e della rabbia. «Fino al 23 maggio tutto era visto come qualcosa che si poteva digerire. Se non ci fosse stata via D’Amelio, forse, persino la strage di Capaci, a un certo punto, sarebbe stata digerita – prosegue – È rimasta indelebile quella immagine del presidente della Repubblica Scalfaro che, ai funerali della scorta di Borsellino, esce a fatica dalla chiesa, quasi di nascosto. È questo il punto di svolta». È d’accordo anche il giovane giallista Marco Marvaldi, un liceale alla soglia della maturità all’epoca delle stragi: «Ricordo che a colpirmi furono soprattutto due cose: il contrasto fra la normalità di Paolo che andava a trovare la madre e la brutalità dell’attentato – spiega lo scrittore – E poi il fatto che tra gli agenti morti ci fosse per la prima volta una donna, Emanuela Loi. La sensazione fu che fosse accaduto qualcosa di irreversibile, che si fosse andati troppo oltre».
Lo scrittore parla anche dei recenti fatti di cronaca: «La testa del busto di Falcone che viene decapitata da bullettiè un gesto da impotenti che testimonia che le cose stanno cambiando, e sono cambiate talmente tanto che non c’è nemmeno più il coraggio da parte di certe persone di fare le cose a viso aperto. A livello simbolico sono cose orribili, ma a livello teorico, ripeto, è una cosa da bulletti senza coraggio, non un gesto mafioso».
È d’accordo Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica: «È mafia o non è mafia quello che è accaduto allo Zen? Sicuramente ci sono ragazzi lì che fanno il tifo per i boss scarcerati. Come fare a convincerli che le nostre storie sono più belle? È questa la sfida, la sfida del racconto – spiega il cronista – Questa città ha il brutto vizio di cercare palcoscenici». Cammina parallelo al dovere di fare memoria, infatti, il rischio di scadere nella retorica. Oggi più che mai, giunti a un anniversario così importante come il venticinquesimo dalle stragi.
«Io Palermo – dice ancora Palazzolo – l’ho scoperta a 15 anni, nell’85. Scoprii che non era una città normale, ma nessuno a scuola me lo aveva insegnato mai. Normalità è un percorso, Palermo è cambiata ma c’è ancora molto da fare – spiega – Quel 19 luglio ero un cronista piccolo piccolo, col mio taccuino bianco in mano. Sono rimasto per due ore a vagare, non ero riuscito a capire nulla, non capivo come raccontare un fatto così enorme. Ho la sensazione di correre ancora e di non capire ancora, in questa città alla ricerca spesso di simboli e che alla vigilia del 23 maggio uccide un boss in pieno giorno». la soluzione, secondo lui, può essere una soltanto: «ritrovare le parole rubate», riscoprire quel progetto di una Palermo normale per cui poliziotti, magistrati, agenti di scorta, giornalisti, imprenditori, sono stati uccisi. Nel frattempo, i passi avanti ci sono stati. «La Palermo di 25 anni fa non era quella di oggi, la strada però è ancora lunga. Ci sono criminalità più subdole e meno percettibili, credo che parlarne sia fondamentale. Si dice che parlando le cose esistono, e quindi mai come in questo caso parlarne è un modo per rendere evidenti certe vicende», dice sul finale il capo della polizia Franco Gabrielli, che chiude ufficialmente gli appuntamenti della questura palermitana.