Catanese a Parigi, l'editorialista di Repubblica è tornato nella sua città per presentare il suo primo libro F.a.q. Italia. Pagine traboccanti di ironia e livore per la penisola e su quella serie di fenomeni passati e presenti che la rendono una delle nazioni più chiacchierate al mondo. Lo abbiamo incontrato - davanti a una granita - per parlare di questo e tanto altro
Francesco Merlo e il quasi Paese
“Come tutti i catanesi amo mangiare la granita, ma questo non significa che ogni volta che lo faccio entro in comunicazione con i miei avi”. Francesco Merlo, editorialista di Repubblica trapiantato a Parigi, ama spiegare con questa battuta il suo rapporto con Catania, la città che ha lasciato molti anni fa per fare il giornalista nelle maggiori testate nazionali. Non crede, insomma, all’ontologia della granita e ai miti da ‘arcisiciliano’ e ha con la sua terra una relazione ‘pacificata’.
Se dovessimo usare un solo aggettivo per descriverlo sarebbe senz’altro cosmopolita. Con tutto quello che ne deriva: la sua visione universale sulle cose, una gerarchia di importanza e di valore che a volte si discosta da chi a Catania è voluto o dovuto rimanere, il confronto quotidiano con chi italiano non è e guarda al nostro Paese con idee e giudizi contrastanti.
Francesco Merlo ha presentato lunedì scorso a Catania il suo primo libro, ‘Faq Italia’ – dove Faq sta per Frequently Asked Questions, nonostante il suono ambiguo – che parla di tutto questo. Lo abbiamo incontrato – proprio davanti a una granita – per rivolgergli alcune domande.
L’intervista però è iniziata solo un’ora dopo: la situazione si è subito capovolta e quest’uomo curiosissimo, che si trova più a suo agio con il “tu” che col “lei”, si è subito riappropriato del suo mestiere, chiedendo, ascoltando. Le nostre letture giornalistiche, le potenzialità e i limiti dell’online e il misterioso universo dei blog: una chiacchierata informale tra generazioni diverse.
Alla fine però è arrivato il nostro turno…
Da italiano che vive all’estero, probabilmente sarai stanco di sentirti rivolgere sempre le stesse domande sull’Italia: come è possibile che abbiate un Presidente del Consiglio del genere? Perché Napoli invasa dalla spazzatura? Come mai fate così poco contro la criminalità organizzata? Presteresti una risposta da riciclare a tutti quelli che non si sentono colpevoli del disastro italiano?
L’immagine dell’Italia è curiosa ed è tremendo perché, fuori, dall’oste al tassista, dal portiere al collega ridono solo sentendo nominare Berlusconi. Tempo fa leggevo un sondaggio fatto dai francesi dove si chiedeva loro, insieme a inglesi e tedeschi, quale fosse il Paese più a rischio per la democrazia. Rispondevano: l’Italia. Poi veniva chiesto quale fosse il Paese dove avrebbero preferito vivere e rispondevano sempre: l’Italia. Il nostro Paese suscita delle passioni che nessun Berlusconi riesce a spegnere, nonostante sia assediato dalla bruttezza e dalla faziosità, preda di un’inciviltà di rapporti. Abbiamo evidentemente un mistero, un segreto. Forse l’Italia è considerata ‘un altrove’. In fondo, non esiste un paese, un’idea di mondo che non sia un altrove anche rispetto alla realtà. Lo stereotipo, nel bene e nel male, contiene sempre la verità, seppur mortificata e semplificata, resa astrazione negativa.
Questo tuo pamphlet è un forte atto d’accusa contro quello che è diventato l’Italia. Noi siamo giovani. Aiutaci a capire: quando è cominciata la decadenza del nostro Paese? E per colpa di chi?
Siamo fuori dalla storia da cinque secoli, quindi usiamo delle arti complicate per restare a galla. È un miracolo che continuiamo a far parte del salotto buono. Siamo una potenza capitalista eppure non crediamo nel profitto. Utilizziamo trucchi e allo stesso tempo misure con cui addomestichiamo la realtà: quell’essere quasi. Gli italiani sono quasi africani, quasi europei, quasi isola, quasi moderni, quasi filopalestinesi e quasi filoisraeliani. Teniamo sempre una porta aperta perché la “quasità” ci consente di restare sulla piazza.
‘Faq Italia’ parla in fondo di tutto questo, ma si è prestato ad una critica: facile parlar male dell’Italia quando si sta fuori, inveire dal centro di Parigi. Come risponde?
Intanto io contesto l’idea del fuori. Io non sono fuori dall’Italia, per tanti motivi. Perché lavoro per l’Italia, mi occupo d’Italia, passo almeno sette mesi all’anno in Italia, non credo che Parigi non sia Italia per certi aspetti. Quando arriva un italiano importante, il fatto che sia a Parigi lo fa aprire molto di più. Misteriosamente acquisisci un’autorevolezza che tu non hai, ma che ti viene fornita dal luogo.
Nel tuo libro disegni un’immagine abbastanza pessimista. Affermi infatti, con evidenti riferimenti anche a Catania, che in una zona a rischio desertificazione, il deserto col tempo erode anche le zone verdi. La soluzione, concludi, è andare via. E’ questo il consiglio che daresti ai giovani?
Andarsene non è, come una volta, la dannazione. Andarsene è un’opportunità: puoi andare per tornare. Oggi puoi lavorare a progetti internazionali a Berlino o a Washington anche vivendo in parte qui, perché gli strumenti di Internet lo permettono.
Forse allora la dannazione non è più individuale, ma rimane una dannazione per la città che lasci?
Ma le intelligenze possono tornare e restituire quello che altrove apprendono. Anche l’intelligenza è globalizzata. Io posso fare una joint venture con le migliori intelligenze di posti diversi. Non è più emigrazione, ma uno spostamento.
Se il tuo giudizio sull’Italia è chiaramente negativo, meglio non parlare di quello su Catania…
Io sono pacificato con la mia città. C’è una bella umanità, ci sono le donne più libere del mondo e non quelle che alcuni continuano a raccontare inventandole. C’è anche il degrado, certo, ma così come c’è in tutti i sud del mondo.
C’è la possibilità di vederti lavorare nuovamente in Italia? O in Sicilia?
A Parigi già mi occupo principalmente d’Italia. Poi può darsi che il mio direttore mi chieda di stare qui o mi affidi dei lavori altrove, ma non cambia niente. Ci possono essere differenze nel tipo di prodotto, ma per me non cambia niente. Ho speso tutta la vita per capire l’Italia. Parigi non è lontana, noi non siamo lontani da nulla e quindi non bisogna sentirsi lontano dentro, perché in questo caso interiorizzi una cosa che fa male e compi quell’operazione contro cui mi batto sempre: la sicilianità, l’insularità.
A proposito del tuo lavoro a La Repubblica, ti rispecchi nella recente linea del tuo giornale? Vi accusano da più parti di trascurare i problemi reali del Paese per parlare delle escort di Berlusconi e dei suoi festini…
Mi ritrovo al 100% e questa è una vicenda che dà forza a La Repubblica. Non si tratta dello stile di vita di Berlusconi che, pur essendo inopportuno o ridicolo, è il suo e non va affrontato con un intento moralizzatore; il problema qui è l’uso dello Stato. Il sospetto terribile è che lui paghi i suoi piaceri sessuali con pezzi dello Stato e questo non esiste in nessuna parte del mondo, è roba da Medioevo. A noi non piace Berlusconi, è legittimo, no? Ma quando fa delle cose positive, come la gestione del G8, scriviamo chiaramente nei nostri articoli che ci fa piacere. Questo non significa dimenticare tutto il resto però. Cosa deve fare il giornalista? Mettere le mani solo nelle notizie pulite e non nelle sporcizie?
In passato hai lavorato al giornale La Sicilia. Conosci quindi personalmente l’editore, Mario Ciancio, che durante la presentazione del libro hai definito ‘un liberale’. Ci sono però delle azioni, come l’ostracismo nei confronti di persone come Claudio Fava sulle pagine del giornale, o la pubblicazione di una lettera del figlio del boss Santapaola detenuto al 41bis, o licenziamenti ingiustificati, che si fa fatica a definire liberali. Che ne pensi?
Confermo che il direttore ha un tratto liberale, ma io non sono l’avvocato de La Sicilia: il giornale può essere criticato ed è legittimo. I singoli fatti da voi citati sono sicuramente da condannare: io, ad esempio, avrei pubblicato quella lettera commentandola, spiegandola, chiedendo l’opinione dei magistrati antimafia. Ognuno poi fa quello che ritiene più giusto, ma se ce l’hai la valorizzi. Per quanto riguarda l’ostracismo, non si fa a nessuno. I fatti si criticano, non si cancellano. È come se, scrivendo la storia, levassimo Hitler perché non ci piace.
Sicuramente sono degli errori, ma secondo me La Sicilia non è un giornale illiberale o mafioso: è un giornale di provincia, con un sacco di errori. Probabilmente c’è una corrività nella storia di questa città e dei suoi giornali.
La stessa corrività che ha accompagnato la storia di Pippo Fava. Pensi veramente che Catania, dopo 25 anni, abbia una memoria condivisa? Eppure ci sono ancora molti catanesi che sostengono che Fava non sia stato ammazzato dalla mafia, che si trattasse di una “questione di fimmini”. Perché?
È spazzatura. Ci sono stati dei processi e da subito si capì che era un delitto di mafia. Mi pare ovvio che sull’omicidio ci sia stata una complicità morale da parte di chi aveva dei rapporti di silenzio, come la categoria. Mi sembrano banalità adesso. Non è vero che la maggior parte dei catanesi sostiene che Fava non è stato ucciso dalla mafia, io non incontro nessuno che pensa questo. Possono non sapere bene come è andato il processo o chi è stato il mandante, così come non tutti i milanesi conoscono interamente la storia della loro città. Forse invece dietro a tutto questo c’è una costruzione ideologica.
Se ci fosse la possibilità di creare un giornale nuovo, quali caratteristiche dovrebbe avere?
Secondo me un giornale nuovo in questo momento in Italia si può fare e alcuni lo stanno facendo, penso a Il Fatto di Antonio Padellaro e Marco Travaglio. Certo, è possibile che si tratti di un’esperienza militante, ma anche questa ha una funzione. La storia d’Italia è storia di faziosi: lo sono quasi tutte le grandi intelligenze e lo è il giornalismo italiano. Un giornale che non c’è e che potrebbe esserci è un giornale di non appartenenza, con l’idea laica della distanza. Sarebbe interessante, ma non è facile, perché anche i lettori spesso cercano solo conferme di quello che è già nella loro testa.
Qual è il primo pensiero quando arrivi a Catania e l’ultimo quando te ne vai?
Mia madre, la mia famiglia, i miei amici più cari sono i miei pensieri costanti. Poi mi piace la gente, la granita. Senza essere arcisiciliano. Non entro in comunicazione con i miei avi quando mangio una granita. C’è un senso di odori, il modo in cui i ragazzi scherzano, mi piace ritrovare qui cose di Parigi e viceversa. Ripeto: sono pacificato con la mia città. Penso che ci sono dei ragazzi molto intelligenti, e pezzi di umanità rarissimi e ben coltivati. Ci sono luoghi strepitosi che conosco, così come ci sono a Parigi o a Firenze. Ma questo è normale e non significa andare a cercare il letto in cui dormivi da bambino.