Finale di partita: la caduta delle maschere

Ho atteso alcune settimane prima di scrivere questo articolo. Troppe voci, la mia compresa, si sono sovrapposte nei mesi scorsi. Troppi scenari sono stati delineati, Troppe speranze sono state nutrite.

Avevo dunque la necessità etica e politica di fare intorno e dentro di me un po’ di silenzio per riuscire a leggere, tra le tante vicende che si sono manifestate, una linea, un disegno, una traccia che potessero conferire un senso a tanto agitarsi.

Come migliaia di palermitani, ho fatto anch’io la mia brava fila per votare alle primarie del 4 marzo. Pur ritenendo che esse non avrebbero risolto alcuno dei problemi sul tappeto, ho voluto celebrare una conquista di democrazia diretta, negata a mio padre o a mio nonno, affinché essa non potesse vedermi indifferente o spettatore, spegnendo sul nascere le speranze dei miei figli già adulti che, come tanti altri coetanei, sono abituati – ormai altrove – a tale pratica di civiltà politica.

Come tutti ho vissuto l’attesa dei risultati, auspicando che, oltre i nomi dei singoli candidati, Palermo desse una prova di maturità a supporto della propria voglia di cambiamento. Come tutti ho fatto esperienza del progressivo disincanto che ne è seguito. Prima uno, poi due seggi inquinati, l’apertura di cirsostanziate indagini da parte della Procura della Repubblica, l’irrisione dell’opinione pubblica nazionale, la sicumera di chi riteneva (e ritiene) che il risultato prevalesse sulla trasparenza e sulla correttezza, l’indecisione dei partiti, la lontananza dei leaders nazionali, interessati come sempre ad una Sicilia “laboratorio a rischio”, ma per niente preoccupati dell’eventualità che lo stesso esplodesse, perché in fin dei conti per molti di essi la Sicilia non è poi così importante mentre accadono nel Paese trasformazioni di posizionamento, di destino, di futuro, sino a solo sei mesi considerate come utopie.

Mentre scrivo finirà tecnicamente l’inverno e comincerà la primavera. L’avevamo immaginata diversa. Dopo il lungo e freddo inverno della politica siciliana, avremmo voluto celebrare una nuova fioritura di vita politica con nuovi sogni possibili, una nuova voglia di riscatto, uno sventolio di “lenzuoli”, migliaia di giovani e meno giovanili, di donne, di pensionati, di militanti dai capelli bianchi, nelle piazze “per riprendersi la Città”. Avremmo voluto che, con o senza primarie, il centrosinistra cogliesse la grande opportunità di scrivere nuove pagine della storia futura di Palermo, mettendo da parte strategie occulte, pupari e pupi, velleitarismi e giovanilismi ma, soprattutto mandando al centrodestra un messaggio chiaro che, attraverso l’esempio di nuovi comportamenti, lasciasse intendere che si era definitivamente prosciugata quell’acqua in cui hanno nuotato per decenni squali e piranha di ogni genere, seguiti da pesci remora, consueti sicofanti di tutti i potenti.

Avremo voluto che oltre i nomi dei candidati, sovente logori già nel loro primo manifestarsi, si fosse elaborato un sogno sulla Città attraverso un brulichio di api operaie al lavoro nelle scuole, nelle associazioni, nelle poche fabbriche rimaste, negli uffici della pubblica amministrazione, nelle parrocchie, per avanzare proposte, costruire programmi, disegnare strade nuove per conquistare quel diritto al futuro che a nessun popolo viene mai regalato ma che si conquista con fatica, impegno, elaborazione, sacrificio e, in qualche caso, con il martirio.

Eppure nulla di questo si è verificato, mentre, invece, si sfaldavano rapidamente alcune speranze. La speranza che il Pd siciliano riuscisse a raddrizzare la schiena piegata dai tardi epigoni di quegli eredi del Pci nei confronti dei quali già Pio La Torre invitava a diffidare; la speranza che nessuno di coloro che avessero avuto responsabilità nel dissennato (e illegittimo) decennio di Diego Cammarata ardisse riproporre ai cittadini la propria faccia logora e le propria vita senza storia come se nulla fosse accaduto; la speranza che, in una delle fasi più critiche della storia repubblicana, si individuassero per Palermo nuove vocazioni, rileggendone, senza sconti per alcuno, il passato recente e remoto; la speranza, infine, che quanti per tradizione, riservatezza, ignavia o semplicemente per paura non si sono mai esposti, mettessero ora a disposizione le proprie competenze e capacità per un servizio nella politica da vivere a termine, senza l’ambizione di “sistemarsi” più o meno a vita.

Di contro abbiamo visto decine di giovani disoccupati o alcuni posteggiati nelle segreteria politiche o in impieghi di limitata responsabilità farsi avanti con l’arroganza delle mosche cocchiere, scambiando, nel migliore dei casi, l’impegno nel sociale con la capacità di affrontare i problemi di una grande realtà metropolitana, gravata da ipoteche storiche, civili, sociali ed economiche, basando il proprio consenso su cori da stadio e assemblee in discoteca.

Ma ciò che in queste settimane abbiamo visto con ogni necessaria chiarezza è stata la vera natura di quella parte del Pd siciliano – quel mutante mostruoso che ha trovato in Raffele Lombardo il proprio demoniaco demiurgo – la cui maschera giace da ieri sotto gli occhi (e i piedi) di tutti.

Tale zona (grigia) di un partito che ha perso ogni diritto di primogenitura cui pur avrebbe potuto aspirare per meriti seppur ormai sbiaditi, ha preso il sopravvento su ogni sentimento di dignità civile e politica e si è allineata – alla siciliana – con quell’asse ambiguo, in cui è possibile tutto e il suo contrario e che a livello nazionale, in nome di istanze apparentemente dettate dall’emergenza, sta costruendo nuovi patti sociali ed a cui non dispiacerebbe un governo di grande coalizione. Che ciò sia auspicato da Casini, da Fini o da Rutelli, giovani vecchi della politica italiana che mai governeranno questo Paese, può anche essere compreso. Ciò che a lungo resterà incomprensibile e che forse solo la Storia un giorno potrà decifrare, è la scelta del Pd di Bersani di aver girato il proprio timone verso un moderatismo in salsa dorotea che consenta di avere parte, anche per interposta persona, nel futuro (improbabile) governo del Paese. Da qui la scelta molto “equidistante” rispetto alle vicende siciliane, l’intollerabile doppiezza e il giustificazionismo bacchettone, da realpolitik, di comportamenti di propri esponenti di rilievo che hanno agito ed agiscono come veri e propri proconsoli pur nella situazione di forte minoranza rispetto alla base, ma auto circonfusi dall’ormai ossidata aureola per “aver deberlusconizzato la Sicilia”, sostituendo ad un Cuffarismo rozzo ma individuabile, una pratica del clientelismo ancor più perniciosa perché nascosta sotto il mantello dell’invisibilità di un’ostentata antimafia da professionisti.

Abbiamo visto umiliata e vilipesa una storia come quella di Rita Borsellino, che pur con le mille perplessità più volte manifestata da chi scrive, avrebbe potuto contribuire a riabilitare l’immagine di Palermo (e per essa, almeno in parte, della Sicilia) in Italia e nel mondo. Umiliata e vilipesa non per il risultato conseguito quanto piuttosto per essere stata affiancata (o sfiancata) a personaggi il migliore dei quali non le arriva all’altezza delle ginocchia. Umiliata e vilipesa per aver visto contrapporre alle proprie parole di saggezza e di buon senso, la bramosia di potere che manovrava abilmente nascosta, e forse non solo da pochi mesi (si vedano incomprensibili convergenze bypartisan in Consiglio Comunale), dietro il volto d’angelo del suo principale competitor.

Adesso quella che avevamo imparato a chiamare “Un’Altra storia” non imboccherà le vie di Palermo e probabilmente si esaurirà negli ultimi anni della solitudine di Strasburgo, salvo a mantenersi viva nell’azione sociale che, grazie al cielo, nessuna politica potrà mai interdirle.

Sullo sfondo resta Palermo, ancora una volta tradita e abbandonata e pronta a saziare gli appetiti delle orde di politicanti di quart’ordine che stanno già affollando le fantasiose liste poste finora in campo dai tanti, troppi, candidati alla poltrona sdrucita di Palazzo delle Aquile.

In un breve commento su Facebook, postato qualche giorno fa tra un aeroporto ed un altro, ho auspicato che il Genio di Palermo, come un novello Golem riportato in vita dal bisogno di Verità e Giustizia evocato dal Gran Rabbino di Praga, si scuotesse di dosso la polvere dei secoli e ricacciasse in mare con il proprio tridente i serpenti che gli mordono il cuore. Sarebbe bello vedere l’anima pagana della Città allearsi per un momento con la Santa che un giorno ci liberò dalla peste e procedere insieme verso Porta Felice verso la piena liberazione di questa Città.

Ma queste cose esistono solo nella fantasia che il bisogno di riscatto vorrebbe trasformare in realtà. Il mondo invece lo cambiano gli uomini e le donne che decidono di non arrendersi all’idea che Palermo torni ad essere la vergogna dell’Italia, anziché, come lo fu per alcuni anni, il simbolo di una nuova stagione di fierezza e di dignità. Quella stagione, quella Primavera che sta per sorgere proprio questa notte illuminando gli angoli bui, calpestando le maschere cadute, infrangendo gli idoli dai piedi di creta e che vogliamo, dobbiamo e possiamo credere che da nulla possa più essere contrastata.

foto di prima pagina tratta fotocommunity.it

 

 


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