Festival di Cannes: the final curtain

La 59ma edizione della rassegna cinematografica francese si è ormai conclusa. Affermare che il cinema italiano debba gridare vendetta significherebbe voler cedere alle ridicole lusinghe di una retorica oratoria sciovinista. La cosa più intelligente sembra averla detta – se non ne abbiamo equivocato la dizione italo-franco-umbra – la deliziosa Monica Bellucci, sottolineando come il numero dei premi non renda effettivamente giustizia alla qualità espressa da molte delle pellicole in concorso. Così, l’italiano viene buttato giù dalla torre. Anzi, no. Sono due: il geniale (secondo il condivisibile parere della bella Monique, in vena, evidentemente, di osservazioni brillanti, NdR) Paolo Sorrentino e l’inossidabile Nanni Moretti.

 

A Pedro Almodovar è andata indubbiamente meglio. Ma dato il doppio riconoscimento tributato al suo “Volver” e al parterre delle attrici che ne compongono il cast, è formula eufemistica. Premio per la miglior regia ad Alejandro Gonzales Inarritu, già autore de “21 grammi”, per “Babel“, opera che ha fra i suoi protagonisti gli attori americani Cate Blanchett e Brad Pitt e che, con una storia che vediamo svolgersi in tre diversi continenti, è ideale suggello di un appuntamento che ha premiato la dimensione straordinariamente interculturale assunta dalla “settima arte”. Fine della doverosa parentesi “politically correct”. Non è la prima, e non sarà certamente l’ultima. La strada verso il Paradiso, d’altra parte, è assai lunga e difficile.

 

Ken Loach, outsider d’eccezione, vince la Palma d’oro con il suo “The wind that shakes the barley”, pellicola che descrive i difficili momenti della resistenza irlandese del secolo scorso. Nel cast è presente Cillian Murphy, bravo attore che nonostante il recente successo de “Batman begins” e l’ interpretazione dell’inquietante “28 giorni dopo”, fatica a farsi strada nell’immaginario del pubblico nostrano, quasi esclusivo appannaggio, si direbbe, dei Colin Farrell o dei George Clooney. 

 

Si chiude, una volta di più, quello che Emmanuelle Béart ha definito come il festival più bello del mondo. E, fra le esagerazioni possibili, è, probabilmente, una delle più facili da condividere.


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