Ferdinando, Angela e l’arena Macallè Ricordi e cinema tra le pagine di un libro

Ferdinando aveva in mente una, in quel principio d’estate. L’aveva vista solo due volte, l’ultima però, le  aveva appoggiato sulle spalle un golfino d’angora celeste perché all’arena Macallè faceva freddo all’ultimo spettacolo.
«Me lo tieni?», gli aveva sussurrato lei prendendo posto e affidandogli lo spumeggiante capo in pegno e in prova. E lui, con finta nonchalance aveva deposto il golfino sul sedile alla sua destra, per marcare il territorio: quel sedile era diventato limite invalicabile. Più forte è l’isolamento, più forte è la necessità di stare insieme, di sentirsi uniti, di stringersi, teorizzava.

All’arena si cominciava subito dopo il tramonto, come al teatro greco. Il primo spettacolo era per gli anziani e le famiglie, perlopiù numerose che sciamavano in sala, a caccia di posti nelle prime file. Procedevano con il passo cautelato e diffidente, armati di grappoli d’uva, acqua fresca, semi di cocomero e altri generi di conforto. Il secondo spettacolo era come la terra di nessuno; il terzo per gli adulti, comitive rumorose di giovani e rare coppie affamate di isolamento. I sedili, freddi e duri erano di ferro, ripassati da innumerevoli mani di vernice che, in origine, doveva essere verde. Il fondo della sala e della tribuna, virtualmente distinte da un solo gradino, era in terra battuta e poco prima che arrivasse il pubblico, veniva annaffiato perché non si alzasse polvere e per lusingare lo spettatore con una effimera sensazione di freschezza. Relegata in fondo, accanto alla cabina del proiezionista, anche la grossa macchia di gelsomino d’Arabia approfittava dell’improvvisa umidità, per liberare un profumo che il vento spandeva nell’arena a proprio piacimento.

«Grazie, ne avevo proprio bisogno», disse Angela Pirrotta stringendosi nelle spalle accarezzate dal golfino, fingendo un brivido e increspando le labbra a cuoricino.
«Figurati», fece lui, ostentando un distacco da maggiordomo che attende a incombenze usuali sine studio ac ira. Sulle spalle di lei, però, le mani di Ferdinando indugiarono un attimo in più. Quel tanto che bastò ad aprire l’amorosa vertenza. Se non c’è malizia non c’è male, si diceva Ferdinando, più per darsi coraggio che per reale convincimento. E se non c’è male non c’è peccato, speculava con stringente consequenzialità
«E se non c’è peccato stiamo perdendo tempo». Sembrò inaspettatamente rispondergli Angela, con un muto sincronismo e un telepatico giro d’occhi che lo raggiunse al petto.

Dall’estremità della loro fila, qualcuno, spingendo i piedi sui sedili davanti, si dondolava, imponendo a tutta la fila un va e vieni ritmico, eloquente, insolente, prematuro e malaugurante. Tac! Alle loro spalle qualcuno aveva spezzato un grissino, durissimo; un bastone granitico ricoperto di sesamo. Dal vivo e senza fretta, con il suo passo da coccodrillo mignon, un geco attraversò la fronte di Ava Gardner e, vissuto quel momento di celebrità, urbanamente uscì dal fascio di luce proiettato sullo schermo e se ne tornò nell’ombra. In preda a un’intima agitazione, trattenendo il respiro, Ferdinando allungò le gambe e poi delicatamente le allargò in modo casualmente studiato, per un attimo avvertì la frizione contro il ginocchio inguainato di Angela. Poi saltò la pellicola e si ruppe l’atmosfera. Sentì che aveva bisogno di tempo e spazio per concertare con se stesso un secondo assalto. Decise di alzarsi e andare a prendere due gassose.

Mentre aspettava il suo turno davanti al chioschetto del bar interno al cinema, si spensero le luci e cominciò il secondo tempo. Stava, con piena consapevolezza, precipitando nel ridicolo. Non solo non era stato in grado, come dire, di farle sentire una sua presenza al momento giusto, cercandola, se non con la mano almeno con la gamba; ma non si dimostrava neanche capace di rimediare in tempo utile due banali bibite. Nella colorata semioscurità, don Pietro, colui che con il tempo si sarebbe chiamato il barman, agitava freneticamente, sopra un bicchierone, la piccola bottiglia d’anice capovolta.
«Papà, ma quanto ce ne mette?», chiese ingenuamente un bambino al padre, alzandosi sulle punte dei piedi per godersi, oltre il piano di marmo, l’alchimia dell’acqua con l’anice. Ferdinando era stato superato come un’auto parcheggiata. «Non ti preoccupare che solo la mossa fa. Lo sai quanto ce ne mette, anice?», spiegò il padre sottovoce. «Niente».

In effetti, pensava Ferdinando, guardando la bottiglietta di anice, da quel beccuccio così lungo e così sottile, cosa può uscire? Niente. Al massimo l’intenzione, una sorta di indomita volontà da cui scaturisce qualche goccia riluttante d’anice che si spande in una nuvoletta azzurrognola che al buio neanche si vede. È l’impressione quello che la gente beve, concluse inesorabile Ferdinando. Il noumeno resta altrove.
«Scusi», interruppe malamente Astuti, ritornando precipitosamente alla realtà e reclamando il suo turno, «ma perché, noi, in Sicilia, le file le facciamo in orizzontale se in tutto il mondo si fanno in verticale?».
Il padre del bambino, più avvezzo, come denunciavano le sue mani, allo spettacolo della natura che a quello cinematografico, sentendosi preso dai turchi, si girò con drammatica lentezza e con gli occhi resi verdi dall’ira e dal neon colorato del chiosco, fulminò
Ferdinando: «Ma lei, proprio questo film si doveva vedere?».

Secondo tempo: lei si portò la bottiglietta alla bocca ma, da gentiluomo, lui non la guardò per non privarla di quel momento di legittima intimità autorizzata dalla semioscurità. In compenso Angela, dopo il primo sorso, staccando la ventosa delle labbra dal collo della bottiglia, si abbandonò a un impercettibile: «Ah!…».
L’ansia dell’esegesi si impose nella mente di Ferdinando: «Ah!» gemito di piacere legato alla bibita? E dunque lecito ristoro per l’arsura placata o, piuttosto: «Ah! cosa ti stai perdendo». Cioè: vergognosa e forse definitiva condanna del suo immobilismo.

Se fosse più difficile scrivere la biografia di Ignazio Patanè o buttare le carte in tavola con Angela Pirrotta, Ferdinando non lo sapeva ancora. Sul cielo dell’arena Macallè, obliqua, trascorse rapida una stella ma non se ne accorsero. Né loro né Ava Gardner.

 

Tratto da Le malaparole, Salvo Scibilia, Edizioni Kowalski 2008

[Foto di Maurice Micheal]


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