Federico Buffa in Sicilia con Le Olimpiadi del ’36 «Memoria rende liberi. Lo storytelling? Non durerà»

«L’idea è provare a fare una sorta di teatro civile che stimoli la riflessione». Quel che colpisce in Federico Buffa quando parla dello spettacolo teatrale Le Olimpiadi del 1936, che lo ha visto impegnato in una manciata di tappe siciliane, è la pausa prima dell’intonazione alla parola «provare». Capace di regalare suggestioni come quelle che lo stesso Buffa, per anni, ha trasmesso attraverso le cronache sportive di basket, insieme al socio e sodale Flavio Tranquillo. Un duo che per gli appassionati della pallacanestro, e non solo, rappresenta la quintessenza della narrazione sportiva. Un modello di competenza ed eleganza, di sagacia e connessioni con tutto ciò che solo apparentemente non riguarda lo sport, che ha fatto scuola. 

L’innovazione di Buffa, di ritorno da un viaggio negli Usa, è stata quella di introdurre in tv lo storytelling in un ambito che fino ad allora annoverava mere collezioni di statistiche, punti, rimbalzi. Negli ultimi anni, vista l’incredibile richiesta, Buffa s’è allargato a raccontare di Messi e Platini, del Grande Torino e mille altre storie. Ora arriva in teatro, dove si cimenta con la narrazione delle Olimpiadi di Berlino del 1936. «Siamo vicinissimi a quell’evento per via della loro sinistra modernità. E per provare a utilizzare la presunta visibilità della televisione, che comunque è un volano forte, per ridiscutere di alcune cose».

Le Olimpiadi del 36 ha sì un impianto teatrale, ma ha mantenuto la narrazione sportiva dei format precedenti (Buffa racconta, Storie Mondiali). Soprattutto nella capacità di parlare di sport raccontando altro: qui si parla di regimi, strategie militari, cinema, architettura… Come nasce uno spettacolo dalle mille connessioni?

Dopo Storie Mondiali, il regista Emilio Russo mi chiese se me la sarei sentita di fare il grande salto delle narrazioni teatrali. Io gli risposi: non credo, ma è il sogno della mia vita. Mi assegnò così alla co-regista di questo spettacolo, Caterina Spadaro, che tra l’altro è siciliana, che è stata la mia coach. Non puoi diventare un attore alla mia età, però puoi provare a prendere una luce meglio, a prendere più pause, a fare cose che in televisione non si fanno. E quindi è nato questo spettacolo, che ha due registri e li alterna: uno di natura drammatica, dove io divento un personaggio realmente esistito, e uno di tipo narrativo, dove io vado verso il pubblico.

Al termine del tour nell’Isola, se Federico Buffa dovesse raccontare la Sicilia quali storie, aneddoti, impressioni porterebbe sul palco?

Prima di tutto, devo dire che sono parziale perché ho un quarto di sangue siculo. L’altro giorno sono stato a vedere i luoghi della mia infanzia, a Milazzo, che non vedevo da 50 anni. La cosa incredibile è che me li ricordavo. Obiettivamente su di me la Sicilia ha un fascino indistinto, travolgente. In più avevamo tanto tempo a disposizione col resto della troupe e abbiamo trascorso giornate meravigliose tra Modica, Scicli, Noto. La Sicilia è di una bellezza struggente, ti obbliga a sorprenderti, lo fa in modo continuo e non smette mai.

Un campione dello storytelling come te che idea si è fatto dell’uso di questo tipo di narrazione in moltissimi campi, dalla politica alla pubblicità? 

Sembra che in questo periodo non si possa più fare niente se non sotto forma di racconto. Si pensa che così ci sia più capacità di penetrazione rispetto ai metodi di comunicazione usati in precedenza. Penso che non potrà durare per molto tempo. Però, per quel che mi riguarda, trovo che sia positiva la richiesta di storie appartenenti a periodi solo in apparenza lontani. Non bisogna vivere nella dittatura del presente. La memoria ci rende molto più liberi di quello che siamo se continuiamo ad usarla.  


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