Falcone, Borsellino e la lingua da salvare

Sarebbe bello se quest’anno, per ricordare Falcone e Borsellino – ammazzati dalla mafia nel ’92 – riuscissimo a restituire a loro, e a noi stessi, perlomeno qualche parola. Non parole maiuscole e definitive, come quelle che si usano per intitolare alla memoria parchi, piazze o aeroporti. Piuttosto parole provvisorie, con l’iniziale minuscola, strapazzate dall’uso e ormai così fragili da spezzarsi al primo urto. Non lapidi, insomma: parole. Sarebbe bello se ogni tanto, dopo aver celebrato e commemorato, si provasse a restituire significato alle voci che usiamo per parlare di certe cose. Per esempio a quelle che usiamo per parlare della giustizia. E non solo quando ricordiamo i morti. Anche quando parliamo di vivi.

 

La parola «giustizia», di questi tempi, circola di rado senza aggettivi. Quello che più spesso la qualifica è senza dubbio «politica». Nel lessico delle cronache, è divenuto del tutto normale affermare che i giudici siano «politicizzati». È praticamente il destino di ogni magistrato che si occupi di mafia, o di stragi, o anche solo di tangenti. Eppure proprio ieri Giuseppe Vicanolo, generale della Guardia di Finanza, ricordava che nei primi quattro mesi del 2007 sono state accertate mazzette per 130 milioni di euro. Niente da fare: nei giornali e in tv, il problema non sono più mafia e corruzione. Bensì la «giustizia politica», e il presunto color rosso delle toghe.

 

Sembra quasi inevitabile: chi fa indagini su alcuni reati incontra prima o poi per la sua strada un sindaco, un assessore o un viceministro. Cosa dovrebbe fare, dunque, per scansare l’epiteto infamante? La cosa più pratica sarebbe far marcia indietro e prendere un’altra strada. O magari cercare subito qualcuno che militi dalla parte opposta dell’imputato, e metterlo sulla graticola per par condicio, a prescindere dagli indizi di reato. Esagerazioni? Mica tanto. La ricetta che potrebbe garantire i magistrati dall’accusa di politicizzazione è stata autorevolmente proposta qualche tempo fa, in un’intervista al quotidiano “La Stampa”, dal dottor Salvatore Cuffaro (che come è noto è sotto inchiesta per sospetti rapporti con un imprenditore mafioso). Cuffaro sa bene che disavventure come la sua non sono rare, e sa anche che qualche volta ci va di mezzo qualche esponente del centrosinistra. Ma questo non gli basta per risparmiare ai giudici che lo indagano l’accusa di essere politicizzati. «A finire indagati – spiega infatti il presidente della Regione – sono solo certi dirigenti Ds, quelli che come me, come noi dell’Udc, stringono mani, hanno rapporti con il popolo, conoscono migliaia di persone. Mica indagano gli onorevoli Lumia e Fava».

 

Proviamo a spiegarlo, questo teorema di Cuffaro: se si indaga un presunto amico dei mafiosi, bisognerà far lo stesso con qualcuno dei loro nemici. Cuffaro fa due esempi: Beppe Lumia (ex presidente della Commissione antimafia, per il quale il boss Provenzano aveva a suo tempo pronunciato una sentenza di morte); e Claudio Fava, politico notoriamente impegnato sul fronte antimafia. Il teorema della «giustizia politica», dunque, contiene a ben vedere questo corollario: che ad ogni presunto ladro catturato, per mostrare equanimità, si debba arrestare anche una guardia. Che la giustizia, per non essere «politica», debba essere indifferente agli indizi di reato. Che essa, per non destar malumori, debba sapere lottizzare le accuse; distribuendole equamente, metà ai presunti mafiosi e metà ai sospettati di antimafia.

 

Per capirla meglio, questa storia della «giustizia politica», non c’è forse vicenda più istruttiva di quella di Paolo Borsellino. Un magistrato che non aveva certo, nel suo bagaglio ideologico, il famigerato bolscevismo che si suole attribuire a priori alla sua categoria; in gioventù, anzi, Borsellino era anche stato dirigente di un’organizzazione di destra (il Fuan). Come giudice, però, Borsellino aveva un’idea molto precisa su alcuni settori della politica italiana. La raccontò, quell’idea, nella sua ultima intervista. Parlò di Vittorio Mangano, trafficante di droga legato alle cosche di Palermo e assunto come fattore alla villa di Arcore. Parlò di Marcello dell’Utri, collaboratore stretto di Berlusconi. Dell’Utri, accusato di frequentazioni mafiose, è stato poi condannato in primo grado, nel 2004, a nove anni di carcere. Dopo quella sentenza, come sempre, fioccarono le accuse contro i giudici «politicizzati». Quasi nessuno volle ricordare che le imputazioni di Dell’Utri assomigliavano molto alle cose di cui parlava Borsellino nel ’92. Questo, d’accordo, non prova – fino a sentenza definitiva – che Dell’Utri sia colpevole. Ma dimostra, perlomeno, che quelle contro di lui sono accuse penali, e non certo «politiche».

 

Sarebbe bello, davvero, restituire alle parole il loro senso. E parlare di giudici «politicizzati» solo quando è il caso. Per esempio, se un giudice non fa indagini per non pestare i piedi a questo sindaco o a quell’altro assessore; se la giustizia si ferma davanti alle porte di qualche palazzo. Il che in Italia è accaduto a lungo (era la norma, anzi, prima della stagione di Mani Pulite) e probabilmente accade ancora. Il fatto è che di questa giustizia politica, nella storia d’Italia, non s’è mai lamentato nessuno. Perché essa, occupandosi principalmente di non far nulla, non è mai finita sui giornali. E perché in fondo una giustizia così a molta gente non dispiace.

 

Tra le parole che, nel lessico scombinato di questi anni, hanno subito le più possenti mutazioni genetiche, ce n’è una assai curiosa. Si tratta di «giustizialismo». Il termine, in senso proprio, si definisce così: «Teoria e pratica politica del governo del presidente argentino J.D. Perón (1895-1974), che univa populismo e autoritarismo». Tuttavia la parola ha mutato di significato: la sua nuova accezione – lontanissima dal significato originario – si è affermata ormai trasversalmente nel dibattito politico. Lo stesso ministro della giustizia, Clemente Mastella, non disdegna di adoperarla. In Italia oggi «giustizialismo» designa, spregiativamente, l’opera della magistratura (specie quando agisce su imputati eccellenti) e le richieste di chi vuole che essa faccia applicare le leggi. Grosso modo quello che, ancora ai tempi di Falcone, si usava designare con il termine «giustizia».

 

Sarebbe bello, davvero, riprendersi qualche parola. O insomma, se non le parole intere, perlomeno qualche prefisso. Il prefisso «anti-», per esempio. Non è mica facile da usare. Poco male se si è soltanto «antipatici». Ma come la mettiamo se, invece, uno va in giro a dire di essere «antifascista» o «antimafioso»? La parola, in questo caso, assume una preoccupante connotazione «di parte». Già: in una Repubblica nata dalla Resistenza, l’antifascismo sembra esser divenuto un vizio di fazione, anziché un insieme di valori condiviso e consacrato in Costituzione. L’antimafia poi, Dio liberi, è meglio non nominarla. O nominarla solo a date fisse, coniugando i verbi al passato e lasciando un fiore sulle lapidi. Di buono, le lapidi, hanno che non appassiscono. A differenza dei fiori. E anche delle parole.

 

Link

 

Ultima intervista di Borsellino

 

http://video.google.com/videoplay?docid=2207923928642748192&q=borsellino+dell%27utri/

 

Sentenza di primo grado nel processo a Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa

 

http://www.narcomafie.it/sentenza_dellutri.pdf

 


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