Il pm Assunta Musella ha chiesto condanne da cinque a dieci anni per sei imputati del processo Money lender celebrato con il rito abbreviato. Tra di loro anche Antonino Buffa e Francesco Agnello, entrambi dipendenti del ministero di Giustizia
Estorsioni e usura, chiesti 40 anni di carcere Si tratta di un filone dell’inchiesta sui Bosco
A pagare questa volta potrebbero essere loro. Nonostante lo sconto previsto dal giudizio in abbreviato, il sostituto procuratore Assunta Musella ha chiesto la condanna complessiva a 40 anni di carcere per sei imputati coinvolti nell’operazione Money lender. L’indagine, risalente al mese di febbraio dello scorso anno, sgominò un presunto ingente giro di usura ed estorsioni con a capo, secondo gli uomini delle fiamme gialle, la famiglia imprenditoriale dei Bosco. Figli e nipoti attivi e uniti nel settore della ristorazione e catering, le loro strade si sono separate nelle aule di giustizia. Antonino, Mario e Salvatore Bosco hanno scelto il processo con il rito ordinario mentre per il capostipite novantatreenne Giuseppe e per Sebastiano attualmente le indagini risultano concluse. In quest’ultimo capitolo però c’è anche un altro Giuseppe, classe 1978, figlio di Antonino additato nei verbali del collaboratore di giustizia Gaetano D’Aquino come «uno dei maggiori usurai di Catania e titolare dei punti vendita omonimi».
Secondo l’accusa del filone abbreviato «è conclamata la responsabilità degli imputati». Tra le fonti di prova anche le denunce di alcuni imprenditori vittime di tassi d’interesse vertiginosi che sarebbero arrivati fino al 140 per cento con quote mensili che variavano dall’otto al dieci per cento. Gli imputati, ai quali non viene contestata l’appartenenza a Cosa nostra catanese, per riscuotere le somme dei prestiti concessi rivendicavano però conoscenze mafiose con l’obiettivo di intimidire i creditori. Metodi a cui ricorreva anche Francesco Agnello, ufficialmente dipendente del ministero della Giustizia, al momento sospeso e sottoposto alla custodia cautelare in carcere, che si presentava come appartenente al clan dei Cursoti. Impiegato al servizio dello Stato era pure Antonino Buffa, oggi in pensione, che si sarebbe prodigato per il ritorno dei prestiti. «Siamo andati a rompere le corna a due – affermava senza sapere di essere intercettato – minchia noi abbiamo le nostre scadenze».
Siamo andati a rompere le corna a due. Minchia noi abbiamo le nostre scadenze
Nel processo, in cui si sono costituite parte civile i Comuni di Catania, Camporotondo Etneo e Sant’Agata Li Battiati insieme all’associazione antiracket Asaae e agli imprenditori vittime, i reati che vengono contestati a vario titolo sono quelli di usura, estorsione e sequestro di persona. Nell’aula, riempita dai familiari degli imputati, a rendere dichiarazioni spontanee è stato proprio Francesco Agnello. «So di aver sbagliato, ma mi professo innocente per il reato di sequestro di persona – ha spiegato al giudice Francesca Cercone – non capisco a quale clan appartengono. U Cursotu, è solo un soprannome che aveva mio padre, ormai deceduto, in quanto nativo del quartiere Antico corso». Uno degli episodi finiti al centro dell’indagine riguarda infatti un presunto sequestro di persona ai danni della figlia di uno dei taglieggiati. «La ragazza – ha spiegato il pm – venne trattenuta per essere messa in contatto con il padre. Bisognava convincerlo ad incontrarli».
Le richieste dell’accusa: Agnello Francesco (dieci anni e diecimila euro di multa), Buffa Antonino (otto anni e seimila euro di multa), Condorelli Santo (sette anni e duemila euro di multa), Maci Luciano (nove anni e duemila euro di multa), Platania Giuseppe Emilio (cinque anni e cinquemila euro di multa), Squillaci Massimo (sei anni e cinquemila euro di multa).