Enigma, in aula parla il pentito Luciano Cavallaro «Champagne a Mazzei durante la sua latitanza»

È un’aula affollata quella del tribunale di Catania che accoglie il pentito Luciano Cavallaro. Dieci detenuti, controllati a vista dagli agenti della polizia penitenziaria, attendono l’inizio dell’udienza del processo nato dopo l’inchiesta Enigma, sul clan mafioso dei Mazzei. Ci sono poi gli avvocati, i praticanti e una vera e propria truppa di parenti e amici degli imputati. Il protagonista resta Cavallaro, ex appartenente alla cosca dei Nicotra, poi transitato alla corte dei Carcagnusi di Nuccio Mazzei, e dal 2016 passato dal lato della giustizia. L’uomo viene fatto entrare da una porta secondaria dell’aula. Sguardo sempre basso, pochi passi, scortato da tre uomini delle forze dell’ordine in borghese, Cavallaro si accomoda in una sedia protetta da un paravento in legno. 

Il pentito, con un passato nei settori di spaccio di droga, rapine ed estorsioni, impiega meno di un’ora per raccontare la sua storia dentro i clan mafiosi etnei e per passare in rassegna quelli che sarebbero stati i suoi compari dentro il gruppo dei Mazzei a Lineri, popolosa frazione nel territorio di Misterbianco. L’inizio della deposizione, sollecitata dalle domande del pubblico ministero Rocco Liguori, si interrompe però dopo pochi minuti. «Segnalo che il testimone si commuove», annuncia la giudice Maria Pia Urso. Dietro il paravento cala il silenzio e Cavallaro impiega qualche minuto prima di riallacciare il filo dei ricordi. «Il capo dei Mazzei lo conosce?», chiede il pm. «È Nuccio Mazzei», risponde il pentito. L’uomo accusato di essere la mente della cosca lo ascolta in silenzio, collegato in video conferenza dal carcere di Spoleto, dov’è detenuto con il regime del carcere duro. «È stato lui il capo, anche quando era latitante – continua Cavallaro – In un’occasione venne pure a Misterbianco, dicendoci che dovevamo andare armati. C’erano dei problemi per una piazza di spaccio contesa con il clan Cappello». Il pentito con un passato da soldato di mafia avrebbe beneficiato anche di un rapporto diretto con il carcagnuso: «Lo incontrai personalmente al Traforo, in via Belfiore a Catania e durante la latitanza gli abbiamo mandato pure una bottiglia di champagne».

Mentre Cavallaro continua a parlare, da dietro le sbarre si ascolta in silenzio. Qualcuno agita le mani, come a volere dire: «Ma che sta dicendo?». Nella platea l’udienza scorre tra sbadigli e occhi distratti dagli smartphone. Basta poco però per tornare attenti. Quando il pentito pronuncia il nome di Giuseppe Avellino, l’uomo alza lo sguardo. È seduto in aula, in via del tutto eccezionale, nonostante sia agli arresti domiciliari. «Appartiene alla famiglia Nicotra – lo accusa Cavallaro – poi è stato inserito nei Carcagnusi di Misterbianco. Si occupava di droga, usura ed estorsioni e abbiamo fatto anche un recupero crediti». 

I dettagli sugli imputati vengono elencati con il supporto di un album fotografico. Cavallaro guarda le foto, affiancate dai numeri ma non dai nomi. «Il numero otto è Grasso – spiega – me lo ha presentato nel 2014 Carmelo Garufi in piazza Eroi d’Ungheria. Mi disse che se avevo bisogno di cocaina mi sarei potuto rivolgere a lui». Tocca poi all’effige con il numero quindici: «Lo vedevo sempre con personaggi dei Mazzei ma non so se era affiliato, non lo conosco personalmente», conclude. Tra le persone conosciute prima dell’ultimo arresto, avvenuto nell’estate 2016, ci sarebbero stati anche «Salvatore Cosentino», presentato da «Jonathan Pasqualino», e «Fabio Sciuto, del clan Cappello, dove mi recavo per la cocaina». Conclusa l’accusa, si passa alle difese. Tra domande che vengono ripetute e richieste di fare presentare alcuni testimoni per le prossime udienze. «Coloro che sono stati citati oggi li chiameremo in aula», annuncia l’avvocato Francesco Marchese. «Credo che per Pasqualino sia impossibile – replica il magistrato -, è scomparso da diverso tempo e supponiamo sia stato vittima di lupara bianca».


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