Eluana, la legge e la morale

Vedersi trasfigurati, soffrire nel corpo e nella mente, vivere una minorità imposta, vedere i propri cari destinati all’impotenza non sono condizioni facili da giudicare. Pur cercandole, non conosco parole capaci di descrivere questo stato e non mi resta che eliderle in un silenzio denso di significati, di non detti gravidi di senso.

Dal punto di vista del legislatore, dirimere questo caso è un’impresa molto più ambiziosa di esplorare un pianeta. Si tratta di decodificare e dare regolamentazione giuridica ad una galassia, costellata da tanti pianeti quanti sono gli individui costretti ad uno stato di prostrazione. Si tratta di ridurre a fattispecie l’inferno di chi decide volontariamente di morire. E dev’essere difficile semplificare l’immenso bagaglio di motivazioni che la morte dolce porta con sé. Come farsi carico di interpretare l’universo di un individuo, quando si guarda al suo attaccamento alla vita? E sulla base di quale metro decidere cosa è giusto, opportuno, morale?

Ma è, infine, questo il punto che dovrebbe animare il dibattito politico sull’argomento?

L’impressione di un sistema politico paralizzato da un embolo (e dunque asfittico, menomato, privo di ossigeno) è la prima, desolante, constatazione che mi viene da registrare.

Il balletto di dichiarazioni – scomposto, alacre e strillato – che ha circondato il caso Englaro, è la spia di un sistema paese che ha cessato di essere sistema, ha cessato di avere obiettivi sistemici e finalità collettive. Ed un sistema che rinuncia ad essere sistema per perseguire valori/interessi/pregiudizi individuali o partigiani è votato al fallimento.

Per quanto difficile da immaginare per lo sconvolgente portato emotivo che incarna, non è etica la natura che un dibattito compassionevole e sensato sul caso Englaro dovrebbe avere. E non è etica la riflessione che dovrebbe muovere il legislatore. Potrebbe esserlo se vivessimo in un regime anarchico o autoritario latu sensu, ossia un sistema non governato dalla stato di diritto e dalla certezza.

Per quanto vituperata, l’operazione – insieme laica, liberale e pragmatica – di distinguere la legge dalla morale spiega bene il modo in cui il diritto moderno ha regolato il rapporto tra società ed istituzioni. La legge impone regole astratte e generali, definisce fattispecie normative al fine di ordinare e semplificare la realtà, e commuta sanzioni nel caso in cui vengano infrante le regole. In questo senso la legge è ‘neutra’, in termini di giudizio, essa non dice – come una norma etica – cosa è giusto e cosa non lo è, prevede una conseguenza per una determinata azione e nulla più”. La legge, pertanto, non è governata dal binomio ‘giusto/sbagliato’, ma piuttosto da quello ‘conforme/difforme’.

L’impressione che la nostra complessità (o la complessità di un caso umano come quello di Eluana) possa essere ridotta a fattispecie può destare un certo sconforto. Ma è, a ben guardare, è in quel lungo iato che separa il dettato normativo dalla vita degli individui che si incastona la nostra libertà individuale e l’idea di un sistema sociale che coniughi e consenta a tutti l’esercizio di tale libertà.

Luhmann svela bene questo concetto. La separazione della legge dalla morale non è un’operazione di de-umanizzazione (e, pertanto, di cancellazione o negazione dei valori sociali), ma un’operazione di astrazione dei principi che regolano una realtà sociale. Questi principi, una volta stabiliti, perdono i loro contorni per diventare strumenti e procedure al servizio dell’ordinamento giuridico.

Regolare il vivere civile è come concedere la cittadinanza, definendo parametri di inclusione e di esclusione dalla sfera del lecito. In Italia, sui temi delle libertà civili sembra valga perentoriamente la regola dell’esclusione. Tutto ciò che non riscuote il plauso della cultura dominante non ha, in questo paese, diritto di cittadinanza, a prescindere da qualsiasi considerazione sulla pericolosità sociale di un fatto.

Può la tensione alla vita non essere considerato un “principio”? Non è piuttosto un istinto primordiale, finalizzato all’autoconservazione? In entrambi i casi, quando si parla di eutanasia e di morte dolce, ci si dovrebbe porre delle domande legate alla pericolosità sociale di una tale scelta, alla sua legittimità, ed alla libertà di un individuo di decidere della propria vita. Il nostro legislatore non sembra, allo stato dei fatti, porsi questo genere di domande. Sembra, piuttosto, impegnato a raccontarci la sua visione, i suoi scrupoli di coscienza, le anguste pareti del suo universo personale. Ma è forse questo il suo compito? Sapere il patema (evidentemente strumentale) che dilania il cuore del Presidente del Consiglio non è il mio primo problema. E, a dirla tutta, non dovrebbe essere neanche il suo. La nostra classe dirigente, che avrebbe dovuto impegnarsi in un serio dibattito di natura giuridica, ha preferito raccontarci la sua personale idea di ciò che è giusto e morale. E ha preferito accapigliarsi perdendo di vista il suo principale dovere: leggere le esigenze della società italiana e tradurle in legge.

La domanda, complessa da un punto di vista etico ed ardua dal punto di vista del legislatore è: si può sanzionare la scelta di rinunciare alla vita? E sulla base di quale principio di pericolosità sociale? A quale prezzo per la libertà personale?

In molti sostengono che uno dei problemi più grandi della cultura politica italiana sia l’assenza di una tradizione politica propriamente liberale. Ed, in effetti, dal punto di vista dell’analisi politica, il richiamo al liberalismo ha latitato nell’inquietante dibattito politico animato da questo triste fatto di cronaca.

Quali margini di libertà ci concede oggi il diritto? Come difenderci da questa continua politica di ingerenza del pubblico sul privato? Perché di questo si tratta… Il retaggio culturale, religioso, ideologico di un individuo o di un gruppo di individui non può ergersi a sistema e rifarsi sulla totalità della popolazione. Altrimenti, mi chiedo, perché contestare la legittimità degli stati confessionali?

A cosa alludeva esattamente il Presidente del Consiglio quando parlava di principi bolscevichi presenti nella Costituzione italiana? Alludeva forse ai principi universali (dell’uomo dunque, non solo del cittadino…) di dignità, libertà ed eguaglianza dinanzi alla legge?

L’illiberalità del dibattito politico attualmente in corso è, francamente, inquietante. Il fatto che sia in discussione il bagaglio laico della nostra tradizione politica è emblematico di un’ideologia totalitaria e barbara che nulla ha a che vedere con le tradizioni liberali a cui certi politici si richiamano. E il manto pseudo-religioso che avvolge questa pestilenziale retorica è tanto più deprecabile quanto è lontano da qualsiasi rudimentale concetto di compassione, tolleranza ed equità.

Il nostro caro Presidente del Consiglio e il suo entourage di illuminati stanno perseguendo un’intollerabile crociata ideologica su una serie di questioni che riguardano la libertà di chi vive in Italia. Tra quanto tempo saremo noi a trovarci addosso uno stigma tale da non meritare cittadinanza in questo paese?


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