Ecco il ‘modello Renzi’: un milione di poveri all’anno e “Licenziare bene, licenziare tutti”

OGNI ANNO L’ITALIA DIVENTA SEMPRE PIU’ POVERA. E SEMPRE CON MENO PROTEZIONI PER I LAVORATORI. IL TUTTO CON IL PLACET DI BERLUSCONI CHE GOVERNA SOTTOBANCO E CONTINUA A FARSI I CAVOLI PROPRI

C’è la “volontà di partire per lanciare un piano nazionale di lotta alla povertà”.

Così il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha detto alla Commissione Affari sociali alla Camera.

Forse il ministro ha dimenticato che le misure fino ad oggi intraprese dal governo non hanno affatto proposto soluzioni alla povertà, anzi, semmai, l’hanno fatta aumentare.

Misure come quella dei famosi “80 Euro”, usata da Renzi alla vigilia delle elezioni europee, non sono servite a ridurre la povertà, dato che gli aiuti non sono stati concessi ai più poveri (ovvero quelli con reddito “zero”) e a quelli a maggiore rischio di povertà (vale a dire quelli con redditi inferiori agli 8000 Euro annui).

In tutti i discorsi le parole utilizzate sono state sempre le stesse: flessibilità e libertà. Come se l’obiettivo sia stato cercare di rendere più flessibile il lavoro. Quale lavoro? Quello che non c’è, almeno stando agli indicatori dell’occupazione (-478 mila occupati nel 2013 secondo l’Istat).

Nell’ultimo periodo l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. E in molte regioni la situazione è così grave che la gente non crede più che possa cambiare e, disillusa, ha smesso di cercare un lavoro.

L’ipotesi di una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi, intorno al 7%, sembra irrealizzabile perché richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro. In pratica, l’occupazione dovrebbe aumentare dell’1,1% medio annuo.

“Un simile incremento – scrive il Cnel – potrebbe essere conseguito soltanto se si manifestasse una forte discontinuità nella crescita dell’economia italiana”.

All’inizio del proprio mandato Renzi aveva promesso di fare del Jobs Act uno dei punti di forza del proprio mandato. Anche allora le parole più frequenti nei discorsi furono “flessibilità” e “rinnovamento”. Niente di più sbagliato: già oggi, in Italia, licenziare è più facile che in altri Paesi europei come Germania, Francia o Olanda. A confermarlo è l’Ocse: in Italia il grado di protezione dei rapporti di lavoro, già nel 2013, risultava inferiore a quello francese e analogo a quello di Germania e Spagna.

Già nel 1997, con il “pacchetto Treu, in Italia erano state introdotte misure per consentire una maggiore “flessibilità” del mercato del lavoro. “Flessibilità” cresciuta ancora con la legge Biagi che, nel 2003, ha previsto nuove e più “flessibili” forme di impiego (come, ad esempio, il lavoro interinale).

I numeri provano che tutta questa flessibilità non è servita a niente: nel corso degli ultimi anni il numero dei disoccupati ha continuato a crescere e continuerà a crescere. E senza il lavoro, ovviamente, è cresciuta la povertà.

Lo conferma l’ISTAT (il 12,6% delle famiglie è in povertà relativa e il 7,9% è in povertà assoluta). E la situazione peggiora giorno dopo giorno: la povertà assoluta è cresciuta dal 6,8% al 7,9% e il divario tra le regioni dove la povertà è maggiore e le altre regioni aumenta sempre di più (nel Mezzogiorno la povertà è aumentata dal 9,8 al 12,6%).

Sono circa 303 mila le famiglie e 1 milione 206 mila le persone che sono diventate povere nel corso dell’ultimo anno. A dirlo sono anche i dati del rapporto del Cnel sul mercato del lavoro 2013-2014: “Il rischio di essere un working poor è cresciuto durante la crisi soprattutto per alcune categorie di lavoratori (i meno qualificati, con bassi livelli di istruzione e occupati in settori a bassi salari), tuttavia anche quei gruppi che tradizionalmente ne erano esenti (lavoratori autonomi con dipendenti e i più istruiti) sono stati investiti dal generale impoverimento”.

E anche il rischio di povertà delle famiglie con alcuni membri che lavorano (la cosiddetta inwork poverty) è aumentato nell’ultimo periodo.

Il ministro Poletti ha detto che bisogna “lavorare per costruire strumenti di azione permanente, c’è bisogno di rete” e di estendere “le sperimentazioni” del sostegno, avviata su un nucleo di città, “alle regioni del Mezzogiorno, ragionando sui fondi comunitari”.

La realtà è che fino ad ora i pochi tentativi (come il Sia, il Sistema attiva di inclusione) di fare qualcosa del “governo del fare” sono rimasti a livello sperimentale. E il gap tra le regioni settentrionali e le regioni del Sud è aumentato. Non è un caso se la regione dove il problema “povertà” è più diffuso era e continua ad essere la Sicilia (28,8%), seguita dalla Basilicata (28,8%), dalla Campania (25,3%), dalla Calabria (25%) e dal Molise (24,4%).

“C’è una discussione sullo strumento, su come fare a definire la conclusione di questa discussione, tenendo conto che dal punto di vista puramente normativo la norma così com’è scritta ci consente di fare già ciò che si vuole fare – ha continuato Poletti -. Il problema è di tipo politico”.

Sì, forse il problema è proprio questo: il Jobs Act è un problema “politico”. Quindi per risolverlo sarebbe stato “politically correct” discuterlo con i sindacati e con i rappresentanti dei lavoratori. E, invece, gli unici con cui Renzi ha discusso della questione sembrerebbero essere stati Marchionne (lo stesso che dopo aver costretto i lavoratori a sottoscrivere accordi capestro, ha trasferito la sede legale del gruppo, e i relativi introiti fiscali, all’estero) e Berlusconi (ovvero l’opposizione).

Giovanni Perazzoli, autore del libro Contro la miseria, viaggio nell’Europa del nuovo welfare, in una recente intervista ha detto: “Jobs Act? Anni luce dall’Europa. I disoccupati di Renzi non avranno il pane”. E ha aggiunto: “Chi dice che ci avviciniamo al modello sociale europeo mente o non sa di cosa parla”.

Se è così, la domanda da porsi è: fino a quando gli italiani saranno disposti a farsi prendere in giro o a farsi governare da chi “non sa di cosa parla”?

 

 

 

 

 


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