Dai tritacarne mediatici alla letteratura minimalista, dalla falsa empatia alla mancanza di vertigini. Un incontro con lo scrittore Angelo Scandurra in occasione della presentazione del suo ultimo libro Quadreria dei poeti passanti, al centro culturale Le Ciminiere
Dipinti di vita
“In questo libro si esercita il mestiere dell’intelligenza”. Esordisce così il filosofo Manlio Sgalambro parlando di “Quadreria dei poeti passanti”, l’ultimo libro dello scrittore valverdese Angelo Scandurra. Un particolare modo di fare prosa presentato giovedì 10 dicembre presso il centro culturale “Le Ciminiere”, in una sala gremita per l’occasione.
Un‘intelligenza, quella cui si riferisce Sgalambro, che affronta brillantemente il rischio delle parole attraverso il loro ardito accostamento. Spesso appartenenti ad un vocabolario insolito, quelle di Scandurra sono parole-sostanza tra le quali si staglia un vuoto che però forse nasconde tutto. L’aggettivo si unisce al sostantivo attraverso un salto nel buio, nel quale si trova il tesoro di Scandurra. “Nascono esseri di letteratura, ciascuno causa di se stesso” dice Sgalambro, precisando come lo scrittore abbia quindi steso un tessuto di idee e parole dotato della bellezza, delle venature e dell’autosufficienza del marmo, cui però il lettore-scultore deve dare forma. La lettura di questa raccolta di piccoli quadri di prosa presuppone quindi il ruolo attivo del lettore. Bisogna immergersi in questa scrittura “tesa a catturare l’idea di bello e di pensiero insieme” e nella quale ogni parola per la sua autorità, per la sua pregnanza e per la sua collocazione “tende all’insostituibile”, spiega Sgalambro.
A dare poi voce ad alcuni quadri è l’attore Pippo Pattavina, raccontando anche uno Scandurra vulcanico nelle idee, nei comportamenti e nell’atteggiamento verso la vita. Vulcanicità che esplode non appena lo scrittore prende la parola. Scandurra dichiara subito di aver scritto semplicemente le sue considerazioni sui temi più disparati, sui diversi quadri di vita in cui si è imbattuto nell’arco di tre anni.
Riflessioni che ognuno di noi è in grado di fare, perché “tutti siamo poeti, che passano e che vogliono lasciare un segno” spiega.“Siamo in un’epoca di enfasi suprema dove la parola è stata dissanguata, i minimalisti continuano a mettere parole su parole dissacrando il ruolo della letteratura. – continua – Ecco che l’artista, l’individuo sensibile, si trova spiazzato e si chiude sempre di più in una nicchia da cui non riesce a comunicare, se non attraverso internet”. Secondo lo scrittore quindi i “sopravvissuti”, coloro che ancora sentono la vertigine delle cose, stanno cercando di ritrovarsi attraverso dei linguaggi cifrati. Una vertigine mentale, s’intende, che significa andare oltre, uno sconfinare che non sia smarrimento ma ricerca. “Dove finisce la vertigine finisce la curiosità e lì si è morti” aggiunge.
Scandurra esplicita il suo rabbioso disincanto nei confronti di un’umanità passiva, soprattutto i giovani, sempre più rassegnati e privi di immaginazione. “È colpa nostra, di noi padri che non siamo stati all’altezza di crescerli. Li abbiamo lasciati in balia del vento”, spiega, accennando anche all’immobilità dei cittadini di fronte ai tagli alla ricerca e, più in generale, alla mancanza di compartecipazione quando si tratta del futuro delle prossime generazioni.
Ma è colpa anche dei mezzi di comunicazione, dove ogni giorno si vedono passare parole e immagini di fatti lieti e orribili, importanti e futili, tutto in un “tritacarne continuo, e noi non introiettiamo niente”. Secondo lo scrittore dovrebbero essere già i professori nelle scuole e le istituzioni a fornire ai ragazzi un’alternativa. E gli stessi scrittori, troppo spesso “estensori di parole vuote”, dovrebbero invece avere un’etica, concentrare nelle opere i valori in cui credono.“Non si può fare lo scrittore solo per mestiere, come se si trattasse di un’attività da scrivania come qualsiasi altra” commenta Scandurra.
L’incontro si conclude con una evocazione: la facciata di una chiesa, con le sue rifiniture, opere di tanti anonimi scalpellini e della dedizione che vi hanno messo, solo per l’amore di sagomare la figura di un angelo che rimanesse un segno per l’umanità. Lo scrittore li ammira e conclude: “adesso manca la volontà di modellare e di modellarci. Dobbiamo trovare la forza di essere uomini” .