Una colossale incompiuta che ha prosciugato milioni di euro e non è mai entrata in funzione. La diga di Pietrarossa, tra le province di Enna e Catania, non è solo un ecomostro ma anche uno dei tanti simboli isolani del fallimento dello Stato. Incapace di finire i lavori di un progetto pensato negli anni ’80 e nello stesso tempo inerme nel farsi sostituire da Cosa nostra nella gestione dei terreni che ricadono nei pressi dell’invaso. Una convinzione messa nera su bianco nelle oltre mille pagine dell’inchiesta antimafia Agorà, dal nome del blitz che nei giorni scorsi ha portato a 56 arresti. Tra i tanti affari finiti nelle mani dei boss compare infatti una vicenda legata alla diga e all’utilizzo dei terreni demaniali. Una tradizione che si tramanderebbe da quarant’anni con la regia della famiglia mafiosa La Rocca di Caltagirone. Gestione di fatto e controllo del territorio in cui si inserisce un momento di particolare tensione risalente al 2018. Anno in cui emergono i problemi tra due famiglie di allevatori che fino a quel momento avrebbero beneficiato della spartizione. Da un lato i Destro e dall’altro i Sanfilippo Scena. Pastori noti alle cronache anche perché, a febbraio 2018, Giuseppe e Carmelo Destro sono vittime di un agguato in cui il primo dei due perderà la vita.
In passato a stabilire le aree di pascolo delle due famiglie sarebbe stato l’anziano capomafia di Enna Salvatore Seminara. «Sotto il muro della diga» in favore dei Destro e «sopra il muro della diga» a beneficio dei Sanfilippo Scena. Una concessione che sarebbe stata pagata a Cosa nostra con la somma di ventimila euro annui. L’accordo però traballa nel 2018 quando i Sanfilippo Scena pretendono di ridefinire le condizioni. Sei mesi ciascuno e poi l’estromissione definitiva dei Destro. Il tutto grazie a un nuovo accordo che, secondo la ricostruzione dei magistrati, non sarebbe stato raggiunto con la famiglia di Cosa nostra ma con due esponenti del clan Mazzei: Carmelo Pantalena ed Eugenio Spitalari. Il 18 novembre 2018 la questione sarebbe stata affrontata in un summit, effettuato in una stazione di servizio Eni lungo la statale 417, alla presenza di Benedetto Distefano, «successore di Seminara come reggente di Cosa nostra calatina», si legge nelle carte dell’inchiesta. Incontro che si concludeva con il riconoscimento delle pretese dei Sanfilippo Scena.
Restava però lo smacco dell’intromissione dei Carcagnusi – attivi a Bronte – nella spartizione del pascolo nei terreni demaniali. «Può comandare a Catania, non qua. Perché vengono a dettare legge nella nostra casa?», dicevano mentre erano intercettati alcuni affiliati alla famiglia La Rocca. Uno di loro, identificato in Matteo Vasta, sarebbe stato pure vittima di un pestaggio. Punito, stando alla ricostruzione, per l’eccessiva intraprendenza nel riportare l’accordo alla versione originale dettata dal boss Seminara. «Ora non entra nessuno più nella diga – diceva il pastore – entra tu se hai le palle». La controversia alla fine si sarebbe risolta in favore dei Sanfilippo Scena. «Pippo non c’è più – diceva Vasta riferendosi a uno dei fratelli Destro rimasto ucciso nell’agguato – se ci fosse stato Pippo tutte queste cose non sarebbero successe».
Per completare la diga andrebbe distrutto un sito archeologico di epoca romana imperiale. I lavori per l’invaso iniziarono nel 1990 e la sua capienza è stimata in oltre 45 milioni di metri cubi d’acqua, una mano santa per le terre assetate di quella zona. Sino ad oggi per la realizzazione sono stati spesi 74 milioni di euro. Recentemente il governo regionale guidato da Nello Musumeci ha annunciato il via libera al progetto definitivo. Il completamento verrà eseguito, stando al programma, utilizzando le risorse del Pnrr.
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