I precari delle scuole siciliane manifestano per il diritto allo studio e al lavoro, gli stessi che da oltre un mese, ormai, occupano il Provveditorato di Catania. Opportunità per urlare la loro protesta e gridare in difesa della cultura, sfilando per le vie della capitale. Tra loro c’è anche Barbara, docente precaria, che durante l’assemblea tenutasi sulle scale del Ministero dell’istruzione, a conclusione della manifestazione dei precari delle scuole lo scorso 3 ottobre a Roma, ha parlato di cosa vuol dire essere un’insegnate precaria in Sicilia e ha gridato la sua rabbia verso le scelte del governo, ma anche verso i colleghi che non scendono in campo.
Barbara insegna da dodici anni italiano e latino, negli ultimi quattro ha lavorato con le nomine del provveditorato e quest’anno si è ritrovata praticamente a terra. «Con grande umiliazione – ammette con amarezza – ho preso una supplenza di 18 giorni per 18 ore. Chi insegna può capire quale umiliazione si prova, dopo dodici anni di servizio, a ridursi a tappabuchi, a insegnante che non può avere una progettualità entrando in una classe, che non può seguire un percorso di formazione».
Comincia così a raccontare cosa vuol dire fare l’insegnante in Sicilia, la regione che ha visto il numero più alto di tagli con 7200 dipendenti della scuola costretti a rimanere a casa, proprio la regione che è stata grande bacino di voti per l’attuale governo.
Attorno a lei altri precari della scuola ma anche tanti poliziotti in servizio. «Vedo le forze dell’ordine qui oggi impiegate contro di noi, contro un movimento che è sempre stato in ogni città d’Italia assolutamente pacifico, ritengo loro malgrado, quando ci sarebbe invece tanto lavoro da fare altrove. Mi veniva da ridere: neanche fossi stata la nipote di Totò Riina, sono stata accolta da un spiegamento impressionante di forze. In questo modo lo stato continua a sprecare i suoi soldi».
Ed è proprio alle forze dell’ordine che si rivolge Barbara, ricordando come siano loro insieme alle scuole “gli unici nel nostro paese a portare avanti la cultura della legalità”, accomunati da condizioni di lavoro poco gratificanti e dall’essere mal pagati. Il fatto che un governo, soprattutto di destra, continui a tagliare i fondi anche alle forze dell’ordine, dice Barbara, dovrebbe essere “un campanello d’allarme per l’intero paese e soprattutto per quelle regioni messe in ginocchio dalla mafia e dalla delinquenza”.
La sua voce si fa sempre più forte, così come gli applausi di chi la ascolta: «Noi cercheremo di portare avanti questa battaglia con coraggio in una Sicilia che non ha tempo pieno e che abbandona i quartieri più poveri. Lì lo Stato non riesce ad essere presente: porta solo il volto della violenza e l’immagine della polizia che va ad arrestare il malvivente e lo spacciatore. Ma a quelle famiglie non riesce a proporre un’alternativa, quell’alternativa che era la scuola e che oggi, guarda caso, viene brutalmente tagliata proprio in questi quartieri».
Barbara, arrabbiata, grida tutto il suo orgoglio di siciliana, ingannata e sfruttata: «Allora la smettano di parlare dei nostri morti, di Falcone e Borsellino, che ogni giorno vengono massacrati da una politica che umilia la dignità del nostro paese e del nostro sud. Siamo stanchi di essere utilizzati da tutti, noi che siamo diventati bacino di voti».
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