Nel mirino sono finiti i togati della procura di Caltagirone perché avrebbero agito «con dolo e colpa grave dopo i primi segnali di violenza da parte dell'ex compagno, non trovando il modo di fermarlo». Il caso è quello di Marianna Manduca, uccisa a Palagonia. Stabilito un risarcimento danni pari a 300mila euro
Denunciò 12 volte l’ex marito, poi lui la uccise Condanna in corte d’Appello per i magistrati
Un femminicidio annunciato. Con Marianna Manduca che aveva denunciato per 12 volte l’ex marito, accusandolo di picchiarla e di avere tentato di ucciderla. Tutto questo però non è bastato a evitarle la morte, avvenuta 10 anni fa a Palagonia, in provincia di Catania, per mano proprio dell’ex compagno, Saverio Nolfo.
Oggi la vicenda torna alla ribalta grazie alla decisione della corte d’Appello di Messina che ha condannato i magistrati della procura di Caltagirone che all’epoca dei fatti avrebbero lasciato all’uomo la possibilità di agire nonostante le denunce della vittima. I giudici hanno stabilito che in merito a questo caso c’è stato «dolo e colpa grave nell’inerzia dei pubblici ministeri che, dopo i primi segnali di violenza da parte di Nolfo, non trovarono il modo di fermarlo». L’assassino, che ha lasciato tre figli affidati a un familiare, si trova in carcere dopo avere subito una condanna a 20 anni per omicidio.
La vittima era stata uccisa per strada, il 3 ottobre del 2007, dopo una lite. Nolfo, dal quale la donna si era separata due anni prima, l’aveva colpita per dodici volte all’addome e in altre parti del corpo con un coltello, ferendo in maniera molto grave anche l’ex suocero, Salvatore Manduca. Il movente, stando alle ricostruzioni dell’epoca, sarebbe stato il contenzioso aperto nella coppia per l’affidamento dei tre figli.
Su questa morte annunciata nel 2014 si erano già espressi i giudici ermellini della corte di Cassazione. I togati avevano accolto il ricorso presentato dallo zio e tutore legale dei tre bambini. Carmelo Calì aveva impugnato la decisione della corte d’Appello di Messina, la stessa che oggi riconosce la condanna dei magistrati di Caltagirone, che aveva definito «decaduti» i termini per esercitare l’azione legale di risarcimento danni. Esito poi ribaltato con l’impugnazione poiché Calì era stato nominato tutore legale nel dicembre 2010, iniziando la battaglia giudiziaria soltanto qualche mese dopo.
A risarcire le parti civili sarà, come previsto dall’ordinamento, la presidenza del Consiglio dei ministri che poi potrà rivalalersi sui magistrati della procura di Caltagirone. La somma che dovrà essere versata ammonta a 300mila euro.