De Aetna, il vulcano descritto nell’opera di Bembo «Viaggio dell’autore fu una sorta di pellegrinaggio»

«Alla Sicilia reale, con i suoi difetti ma anche con le sue qualità, è sostituita una Sicilia ideale, collocata nel passato, in una dimensione esclusivamente naturalistica». Parola di Ferdinando Raffaele, docente, filologo e curatore della nuova edizione del De Aetna di Pietro Bembo. Un’opera in cui il vulcano, per secoli descritto come un’entità soprannaturale, viene per la prima volta visto in una dimensione esclusivamente naturalistica. Così l’umanista veneziano offre, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, la prima visione dell’Etna che non cede a suggestioni «irrazionali e popolari». Ma c’è di più: è uno dei primi testi in cui viene codificata la lingua letteraria nazionale.

Dottor Raffaele, qual è la visione che Bembo ha della Sicilia?
«Si lega soprattutto a due prospettive, quella veicolata dalla letteratura greco-latina, e quella della natura. Nel primo caso il soggiorno nella città di Messina, non a caso in quegli anni definita nuova Atene, per apprendervi il greco alla scuola di Costantino Làscaris, offre a Bembo l’occasione di un viaggio, una sorta di itinerario turistico nel quale lo scrittore tocca luoghi che ritiene significativi: le città di Taormina e Siracusa e poi l’Etna. È interessante soffermarsi sullo spirito con il quale egli descrive le tappe del suo viaggio. Per un verso ce lo presenta come una sorta di pellegrinaggio in luoghi che assumono un significato simbolico di quel mondo verso il quale l’autore nutre una vera e propria venerazione. Per altro verso, è l’occasione per mettere alla prova gli strumenti intellettuali dei quali ha acquisito padronanza lungo il percorso dei suoi studi, ossia l’erudizione e la filologia, che sono elette a guida per le sue riflessioni sui fenomeni naturali. Il vulcano costituisce infatti la manifestazione più imponente e vistosa delle forze della natura, e va indagato senza cedere a quelle suggestioni irrazionali e popolari che vedevano in esso una manifestazione del meraviglioso e del soprannaturale».

Perché rileggere oggi quest’opera?
«La descrizione di tipo scientifico della Sicilia che ci fornisce il De Aetna fa a meno dei suoi abitanti. Per esempio, i campi rigogliosi non sono tali per il lavoro umano, bensì perché frutto di una natura particolarmente generosa. Si tratta di una visione dell’Isola che ritroviamo in tante narrazioni, da parte di autori che quasi mai hanno letto il dialogo di Pietro Bembo. Una visione che è ricorrente soprattutto nei diari di viaggio degli scrittori di orientamento illuminista e classicista: innamorati della Sicilia del passato, essi intimamente disprezzano quella presente. È un atteggiamento presente anche in un gran numero di narrazioni dedicate nel Novecento e in questo secolo alla Sicilia, che la descrivono come una terra da redimere, se non irredimibile. Avvertiamo in ciò una singolare consonanza con i presupposti che stanno a fondamento dell’opera del Bembo: alla Sicilia reale, con i suoi difetti ma anche con le sue qualità, è sostituita una Sicilia ideale, collocata però nel passato ovvero in una dimensione esclusivamente naturalistica».

Perché definisce l’opera precorritrice di temi letterari e motivi ideologici destinati a futura germinazione?
«Il De Aetna testimonia la scissione che si è consumata in seno alla cultura umanistica tra l’attività intellettuale – l’otium – e l’attività pratica impegnata nella vita politica della città – il negotium –. Bembo appare interessato solo alla prima, e quasi infastidito dalla seconda. Come si sa, sul finire del XV secolo, gli alti ideali che avevano contraddistinto la nascita e l’evoluzione dell’Umanesimo si frantumano; la renovatio politico-religiosa auspicata da molti umanisti non si realizza. Così alcuni di loro imboccano la via del misticismo religioso, altri quella dell’erudizione. E Bembo è tra questi ultimi. Nella sua prima opera, in sostanza, egli esprime una concezione della letteratura tendenzialmente autoreferenziale».

Perché attraverso questo testo Bembo può essere considerato un codificatore della norma grammaticale?
«Soprattutto perché delinea un canone: quello della classicità. In tale canone Bembo, nella sua opera di maggior portata storica, ossia le Prose della volgar lingua, farà poi rientrare la tradizione linguistico-letteraria italiana che va dal Duecento fino al suo tempo, per selezionare un preciso modello di scrittura: Petrarca e (un po’ meno) Dante per la poesia, Boccaccio per la prosa. Il modello trecentesco, com’è noto, avrà grande fortuna e sarà alla base della lingua letteraria nazionale, il cui canone grammaticale si afferma, per l’appunto, a partire dalla teorizzazione del Bembo. In ambito latino, con il De Aetna si può constatare la tensione verso un modello prosastico elevato, destinato a perdurare nel tempo. Bembo, cioè, intende mettere in pratica quei precetti normativi che aveva fatto propri lungo il suo percorso scolastico, sicché il De Aetna vuole anche rappresentare una prova della sua acquisita padronanza nell’uso della lingua latina, rivolta a un pubblico raffinato ed elitario. È, sotto molti aspetti, l’opera che sancisce la sua maturità intellettuale e stilistica».

Perché il sodalizio tra Bembo e l’editore Aldo Manuzio si rivelerà fruttuoso per la storia della letteratura italiana?
«Colpisce una sintonia di tipo estetico: Bembo persegue un modello letterario improntato alla raffinatezza linguistica che ambisce a una dimensione di classicità. L’editore veneziano Aldo Manuzio, dal canto suo, imprime una svolta decisiva alla stampa. Fino ad allora essa era stata vista soprattutto come un prodotto di consumo, e apprezzata pressoché esclusivamente per la sua maggiore economicità e praticità rispetto al libro manoscritto. Con le edizioni aldine possiamo parlare di editoria d’arte. Un prodotto classico, cioè destinato a durare, sia per i contenuti, sia per la veste grafica».


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