Ritenuto al vertice del gruppo criminale attivo nel penitenziario di Brucoli, con la presunta partecipazione di compagna e cognata, in passato è stato collaboratore per lo smaltimento della cera durante il mandato dell'ex capovara Claudio Baturi
Dalla festa di Sant’Agata al mercato di droga e mini cellulari Gli affari in carcere di Muntone: «I piccoli costano 450 euro»
Un passato, nemmeno troppo lontano, da collaboratore per lo smaltimento della cera durante la festa della patrona di Catania, e di iscritto all’associazione Sant’Agata cattedrale. Dario Giuseppe Muntone, l’uomo accusato dalla procura etnea di essere al vertice del sodalizio criminale che avrebbe spadroneggiato nel carcere di Brucoli, prima di finire dietro le sbarre indossava il sacco bianco dei devoti. Era così almeno tra il 2011 e il 2014. I problemi con la giustizia per l’uomo cominciano nel 2015. Muntone viene accusato di due rapine, commesse a volto scoperto e pistola in pugno tra febbraio e giugno ai danni di altrettante gioiellerie, e di sequestro di persona a scopo di estorsione. Nell’ultime inchiesta, portata a termine dalla guardia di finanza, il 35enne è invece accusato di «coordinare le attività di acquisto, trasporto e vendita di droga», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare. Le comunicazioni con il mondo esterno non sarebbero state un problema grazie a dei mini cellullari che in carcere entravano senza problemi grazie alla presunta complicità di Michele Pedone, agente della polizia penitenziaria ritenuto a libro paga del gruppo criminale.
Un contributo fondamentale sarebbe stato quello dei familiari di Muntone. Alcuni, nonostante non siano iscritti nel registro degli indagati, in più occasioni avrebbero recapitato messaggi e si sarebbero messi a disposizione dell’uomo. Scenario diverso per Giovanna e Rosaria Buda. La cognata e la compagna di Muntone sono entrambe finite in carcere. Quest’ultima si sarebbe occupata sia degli approvvigionamenti di telefoni, sim e cavetti ma anche di tenere «con grande precisione» la contabilità «del denaro incassato e di quello da incassare».
I soldi, secondo la ricostruzione dei militari, transitavano su una carta ricaricabile Postepay intestata alla cognata. Secondo la ricostruzione degli inquirenti l’uomo, nel periodo dell’indagine, avrebbe utilizzato almeno sette schede sim diverse e attraverso queste, oltre a effettuare chiamate, riceveva messaggi in cui le donne lo aggiornavano sulla contabilità. Da febbraio a ottobre 2020 nella carta sono stati accreditati qualcosa come 23mila euro. Gli investigatori ipotizzano anche il prezzo dei mini cellulari, venduti agli altri detenuti a circa 450 euro a fronte di un prezzo di mercato che online può toccare punte di 76 euro. Cifra, quest’ultima, per gli apparecchi più sofisticati. Utili non solo per effettuare o ricevere chiamate ma dotati anche di fotocamera e di connessione internet. Il 3 ottobre 2020 Giovanna Buda riceve una telefonata dal marito detenuto. I due discutono proprio dei mini cellulari da acquistare, possibilmente touch screen, e dotati di Whatsapp.
In carcere sarebbe entrato, insieme alla droga da spacciare, anche un cubo di mannitolo, sostanza venduta in farmacia per combattere la stitichezza. «La medicina per lo stomaco l’hai comprata?», chiedeva da dietro le sbarre tramite sms alla compagnia. La donna rispondeva che a recarsi in farmacia sarebbe stato il figlio, prima di andare a scuola calcio. Effettuato l’acquisto la coppia si confrontava su come inserire il tutto dentro un pacco da inviare in carcere. «Appare superfluo specificare – si legge nei documenti – che il mannitolo è utilizzato spesso per il taglio della cocaina, così da aumentarne il volume».