È all’uomo che ha sconfitto le Brigate rosse che nella primavera del 1982 il governo si rivolge per fronteggiare la nuova emergenza del Paese. Il suo arrivo nell’Isola, il 30 aprile del 1982, coincide con la morte del segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre. Il generale chiede poteri speciali al Governo, ma non arriveranno mai
Dalla Chiesa, il prefetto dei cento giorni A Palermo per fermare la “mattanza” di mafia
«Una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato». Non aveva dubbi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Piemontese di Cuneo, Dalla Chiesa è l’uomo che ha sconfitto le Brigate rosse, rispettato e temuto per la sua abnegazione e rispetto dello Stato, sempre al centro di vicende clamorose. È ed proprio a lui che nella primavera del 1982 il governo si rivolge per fronteggiare la nuova emergenza del Paese, la nuova guerra di mafia che sta martoriando la Sicilia, dove al termine del 1981 si contano 50 morti e nei primi mesi del 1982 sono già venti, ma destinati a quadruplicarsi. Una mattanza senza fine che il super prefetto, così viene definito dalla stampa, arriva in Sicilia con il compito di debellare. «Non dico di vincere, ma di contenere – dirà in una intervista Dalla Chiesa – mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere».
Dalla Chiesa non è uno visionario. Severo e autoritario è consapevole della immane sfida che lo attende e di come molti altri prima di lui hanno fallito. Ma il generale è ostinato e caparbio ed è convinto che solo grazie a poteri speciali, come nel caso della lotta alle Brigate rosse, sarà possibile ottenere dei risultati. La sua carriera, infatti, si lega indissolubilmente al nucleo speciale antiterrorismo creato ad hoc nel 1974. Qui mette in pratica le tecniche di guerriglia apprese tra i partigiani. Nel settembre di quello stesso anno, i suoi uomini arrestano Renato Curcio e Alberto Franceschini fondatori delle Brigate rosse. Il primo successo del generale, seguito da molti altri. Successivamente, dopo una breve pausa, richiamato dal Governo torna a combattere il terrorismo e mette a segno un risultato clamoroso. L’arresto del militante Patrizio Peci che Dalla Chiesa convinse a collaborare e che con le sue rivelazioni contribuì a sconfiggere le Brigate rosse con l’irruzione del covo di via Fracchia, a Genova, nel marzo del 1980.
Dopo il successo contro le Br ecco la sfida più grande, la lotta a Cosa nostra. Nel 1982 viene nominato dal Consiglio dei Ministri prefetto di Palermo e posto contemporaneamente in congedo dall’Arma. È un battesimo di sangue: il suo arrivo nell’Isola, il 30 aprile del 1982, coincide con la morte del segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre. Iniziano così i 100 giorni di Dalla Chiesa a Palermo. Dal suo arrivo, tuttavia, è un susseguirsi di omicidi, compiuti spesso di giorno. Un’arroganza mai tollerata dal generale che vorrebbe mettersi subito a lavoro ma non ha ancora i poteri speciali richiesti al governo. Nel frattempo continua la mattanza: il 26 agosto si conteranno già 100 morti. Dalla Chiesa continua a chiedere poteri speciali al Governo e spesso si sposta a Roma ma le richieste cadranno sempre nel vuoto.
Ed ecco che la rabbia spinge il generale a rivolgersi direttamente all’opinione pubblica. Il 10 agosto di quello stesso anno, in una intervista rilasciata a Giorgio Bocca, traspare il senso di impotenza verso una mafia che «uccide in pieno giorno, trasporta i cadaveri, li mutila e li posa fra questura e Regione, li brucia alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo». Bocca anni dopo, riferendosi a quell’incontro a Villa Pajno, ricorderà la solitudine di Dalla Chiesa, una solitudine quasi profetica del suo «essere destinato a morire». Lo scontro con il Governo che non lo aveva aiutato ma che lo aveva lasciato solo ora è sotto gli occhi di tutti. Eppure Dalla Chiesa non chiede leggi speciali, solo «chiarezza». «Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia – dice ancora in una intervista – non per discutere di competenze e di precedenze». E poi la frase rivelatrice: «Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato».
Dalla Chiesa ha capito qual è il rischio che corre, ormai è isolato. Nel frattempo i morti continuano a crescere. Ma il 20 luglio l’allora ministro dell’Interno Rognoni vola in Sicilia per rassicurarlo e prometterli i poteri speciali che aveva richiesto da tempo. Sembra tutto pronto per la rivincita dello Stato ma ormai è troppo tardi. La mafia ha già firmato la sua condanna a morte. Sempre più arrogante e beffarda, per la prima volta, con una telefonata annuncia l’attentato. Il 3 settembre alle 21.15 in via Isidoro Carini un commando armato affianca l’A112 della moglie, crivellando la vettura di colpi e uccidendo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell’attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia entrambi all’ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.