Non ci sono i loro nomi nelle cronache dei nove arresti di Partinico e Borgetto per associazione mafiosa. Eppure qualcosa dalle carte emerge. Sono nomi, atteggiamenti, azioni. Sono donne: mogli, madri, figlie che spesso restano nell’ombra. Tra queste c’è Giuseppa Vitale, meglio nota come Giusy, sorella di Leonardo e Vito Vitale, boss che hanno comandato a Partinico e dintorni negli anni ’90. Sorella come le altre, se non fosse per il fatto che, rinchiusi in prigione i fratelli, le redini del mandamento finiscono nelle sue mani. Dura poco Giusy Vitale, solo un paio di anni, ma che bastano a sfatare il tabù del coinvolgimento delle donne nelle attività di Cosa nostra.
Giusy Vitale viene considerata una degna reggente, in grado di curare gli interessi della cosca così come di farsi carico del mandato di morte di un imprenditore locale, Salvatore Riina. La sua vita è improntata sin da bambina a un’educazione di stampo mafioso: dalle visite ai parenti in carcere per smistare i messaggi ai segreti della famiglia dei quali viene messa al corrente. Dopo l’arresto nel 1998 diventa collaboratrice di giustizia. Si pintiu, come direbbero dalle sue parti. Ma a fornire un ulteriore spaccato degli anni ’90 sono anche Maria Vitale e Maria Gallina, l’una figlia e l’altra moglie dell’indiscusso capo mandamento Leonardo Vitale. Nel 2006 anche loro vengono condannate per associazione mafiosa e la gestione delle attività criminose di Partinico da parte dei Vitale – che continuano a diramare ordini dal carcere – inizia a vacillare.
Storie lontane nel tempo, ma non troppo. Perché Giusy Vitale ha sdoganato un ruolo: ancora oggi, molto avviene davanti alle donne e spesso proprio tramite loro. È il 26 settembre 2013 quando Maria Rita Piazza, moglie di Giuseppe Giambrone – braccio destro del boss Nicolò Salto, detto Ni – viene intercettata in carcere mentre parla col figlio Antonino, dietro le sbarre con l’accusa di associazione mafiosa. «L’amico di papà voleva la testa! Hai capito?», sussurra all’orecchio del figlio tra i saluti a fine visita. Un modo, secondo gli investigatori, per far sapere ad Antonino – che non aveva altra scelta che assentire – che Salto ha preso il comando della famiglia mafiosa di Borgetto.
Di altre donne, invece, si sa poco. Si sa, per esempio, da un’intercettazione telefonica del 7 febbraio 2014, che l’imprenditore locale Salvatore Venerina dice a Francesco Giambrone, altro figlio di Giuseppe: «Quelle cose le ho portate a Giuseppe (Giuseppe Toia, ndr), hai capito? Le ho portate alla moglie». E quelle cose di cui parla sono tremila euro, la quota mensile da versare alla famiglia. Il pizzo. Non si scompone nemmeno Martina Salto, la figlia del boss Nicolò, quando il 31 dicembre 2013 suo marito Francesco Furnari, in preda all’ira, piomba a casa sua per reclamare a gran voce un intervento di Giuseppe Giambrone contro il suo stesso cognato, Ambrogio Musso, reo di aver portato carabinieri, forestale e polizia municipale di Borgetto a sequestrargli un terreno. «Giuseppe (Giambrone, ndr) è venuto con la sua famiglia a disturbare! Il discorso è proprio questo! Cosa ha questo? – interviene Martina – L’ho visto… ora ora l’ho visto… disgraziati che sono!». Mentre un’altra donna, con rabbia, riassume il clima di omertà in cui si muovono le protagoniste: «Le persone i fatti loro non se li sanno fare mai! Nessuno se li sa fare!».
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