«A caldo dico che quello che ho fatto lo rifarei altre mille volte». Non ha dubbi Ignazio Cutrò, l’imprenditore di Bivona che non si è piegato al racket, denunciando anche pubblicamente i suoi estorsori. Da quel momento la sua vita cambia radicalmente. E oggi, di quello che era stato un tempo, rimangono poche tracce. Ed è di oggi il rigetto da parte del Tar Lazio del ricorso per ottenere speciali misure di protezione. Secondo i giudici, infatti, Cutrò e i suoi familiari non sarebbero in pericolo di vita. Eppure, da quella prima denuncia, le minacce non sono mancate. E un intero paese, dove Cutrò decide di rimanere, rinunciando al trasferimento in località protetta e al sussidio dello Stato, lo isola. «Ho deciso di restare nella mia terra – dichiara l’uomo, che dè stato assunto in base a quanto previsto dalla legge sui testimoni di giustizia – perché sono convinto che se ne debbano andare i mafiosi».
In questi anni, Cutrò ha fatto sentire la propria voce e quella degli altri testimoni di giustizia trasferiti in località protette e impossibilitati a parlare per sé, combattendo per una categoria che fino a qualche tempo fa, in fatto di regolamentazione, si appoggiava a quanto stabilito per i collaboratori di giustizia, che sono altra cosa. «Abbiamo ottenuto una legge dedicata che prevede la loro assunzione nelle istituzioni – specifica Cutrò -. Siamo riusciti a farli spostare da Roma e a farli tornare nelle loro località. Ma con la proposta di legge di Rosi Bindi si andrà verso una definizione ancora più netta dello status di testimone».
Non c’è amarezza nelle sue parole. Anzi. Non fa che ringraziare, Cutrò, per tutto quello che ha ottenuto fino ad oggi. «Io non me ne andrò mai da Bivona – ribadisce -. Non lascerò mai la mia terra, né da vivo né da morto». Sorride, però, di fronte a quello che secondo lui è un paradosso. Il fatto, cioè, che malgrado il rigetto del Tar Lazio, seguito a quello precedente deciso dal Consiglio di Stato, sotto casa sua ci sia ancora la scorta, che lo segue dappertutto. «Siamo passati alle misure ordinarie del prefetto di Agrigento, che ha garantito a me e alla mia famiglia protezione costante – spiega -. Se mi lasciano la scorta significa che stiamo rischiando, no? Anche se ormai le spiegazioni non mi interessano neanche, mi basta che nessuno, quando sarà il momento, venga a fare le sfilate sulla mia tomba».
La vita, nel piccolo paesino dell’Agrigentino, va avanti a forza di rospi amari da inghiottire. Come quello che è accaduto a sua figlia: «C’era la possibilità di lavare i piatti in una pizzeria. Ma non l’hanno voluta perché era figlia mia – racconta -. A casa mia non viene più nessuno. Però sono sereno, sono felice di aver fatto lo scassaminchia, in un paese normale mi avrebbero detto grazie per quello che ho fatto».
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