Così non produciamo né cultura né preparazione professionale

Questo momento, d’inizio legislatura, mi sembra quello più adatto ad una riflessione che colleghi i principi a cui si deve ispirare l’azione politica con i provvedimenti concreti da tradurre in proposte di governo, norme legislative e atti amministrativi. Uno sforzo in questa direzione è stato compiuto nel programma e nel discorso del presidente del Consiglio che hanno posto l’istruzione e la ricerca al centro dell’economia e della società come fattore di sviluppo e di innovazione ma credo che manchino ancora i collegamenti sui quali costruire un cammino coerente.

Soprattutto occorre provocare un coinvolgimento del mondo universitario come ceto intellettuale, non soltanto dei vertici accademici: purtroppo il mondo accademico appare totalmente assente e passivo, in ogni caso troppo invischiato nei problemi tragici della situazione attuale per poter dare un contributo realmente indicativo.

Un discorso preliminare è quello relativo alla base storica da cui parte il mio ragionamento: l’Università vive come istituzione peculiare della civiltà occidentale, quando si danno due condizioni essenziali: la simbiosi tra ricerca e didattica all’interno di una stessa struttura e la sua funzione di interrelazione con la città in un quadro costituzionale complesso che la comprende come soggetto attivo.

L’autonomia universitaria è esistita storicamente e può esistere soltanto nella misura in cui l’Università costituisce un corpo dotato  di un suo ruolo nella città e quindi capace di avere un rapporto  di alterità con gli altri poteri (politico, economico ecc.) nelle concrete realtà in cui questi si manifestano. Se queste condizioni sono assenti abbiamo soltanto un simulacro o una mummia di università anche se si tratta di istituzioni efficienti nella didattica o nella ricerca.

Naturalmente ciò non si contrappone all’esistenza di altre forme di organizzazione della ricerca o della istruzione superiore al di fuori delle università, anzi le presuppone, così come si é verificato in gran parte dei Paesi europei particolarmente nell’ultimo secolo con lo sviluppo di organismi di tipo nuovo fondati dal potere politico ed economico sia come centri di ricerca che come istituti di formazione professionale a livello superiore.

Nelle società complesse e ad alto sviluppo tecnologico tali presenze sono sempre più necessarie e ineliminabili: lo sbaglio che commettiamo in Italia è al contrario di voler assorbire tutto all’interno di un’Università senza volto o di attribuire a queste istituzioni per la formazione di livello superiore una maschera universitaria che le snatura.

Dobbiamo riflettere sul fatto che in tutti i paesi più avanzati l’università rappresenta soltanto una quota dell’istruzione superiore mentre da noi sembra volerne tenere strettamente il monopolio anche al livello nuovamente costituito del diploma; dobbiamo riflettere sulla commistione, tipica soltanto del nostro ordinamento, tra enti di ricerca e università con la estensione ai primi di un modello d’origine corporativa proprio dell’università ma incompatibile con altre forme organizzative.

L’università in Italia sembra aver abdicato completamente al suo ruolo costituzionale per pretendere, con il pretesto dell’educazione di massa, il monopolio della istruzione superiore e della ricerca. L’autonomia prevista nell’articolo 33 della Costituzione va invece vista non soltanto in senso passivo (come garanzia dall’intromissione di altri poteri) ma in senso soprattutto attivo come responsabilità della gestione di un potere essenziale di coscienza critica e scientifica della società.

Sino a qualche anno fa l’Università era retta da un suo meccanismo tradizionale, prima baronale poi allargato sempre di più alle rappresentanze di tutti i docenti, un mondo nel quale le discipline e gli interessi delle varie corporazioni erano governati da poteri ben precisi, con tensioni ed equilibri che trovavano una loro soluzione all’interno dell’accademia.

L’Università era in qualche modo autoreferente, lontana dalla politica e dal mercato: forniva alla politica e all’economia consulenti, a volte anche ottimi, ma rimaneva in qualche modo estranea alla
politica e all’economia in quanto struttura; gli studenti non venivano preparati direttamente alle professioni ma ricevevano la formazione scientifica e culturale di base, con la quale dovevano poi navigare nel mondo del lavoro dopo il conseguimento della laurea.

Vi erano difetti gravi derivanti da questa cesura tra Università e società (nessuno può pensare di ritornare ai vecchi schemi) ma vi era anche  una definizione delle responsabilità e soprattutto l’università definiva essa stessa  i suoi progetti, le sue mete scientifiche e forniva come “corpo accademico” un punto di riferimento all’intera società; rappresentava in qualche modo una magistratura della cultura, un potere critico-scientifico autonomo con cui la politica e l’economia dovevano fare i conti.

Ora l’Università è sempre più coinvolta nel mondo della politica e della produzione non soltanto nelle persone dei suoi componenti ma nelle sue stesse strutture. Stanno nascendo fittissimi intrecci tra università, istituzioni politiche e amministrative, fondazioni bancarie, industria, con una fioritura di iniziative che rendono così brillante e quasi fosforescente, come mai in passato, la vita delle nostre facoltà e dei nostri dipartimenti: progetti di ricerca vengono presentati a enti pubblici, a fondazioni bancarie, alle associazioni industriali per ottenere finanziamenti e sponsorizzazioni, in concorrenza fra di loro. Nuovi corsi, diplomi e masters attraenti vengono proposti agli studenti per ottenere un aumento delle iscrizioni: in settori tradizionali con nuovi nomi oppure in settori legati agli ultimi indirizzi del mondo economico, assorbendo all’interno dell’università molti corsi professionali un tempo inseriti all’interno del mondo produttivo e spesso, quasi sempre, senza alcuna considerazione per gli sbocchi professionali.

Occorre sottolineare i costi e i pericoli di questa evoluzione. Da una parte si tende a trascurare la ricerca e l’insegnamento scientifico e culturale di base: rischiamo di perdere interi settori che sono il fondamento sotterraneo di tutto il nostro edificio culturale (dalla matematica alla storia e alla filosofia, dalla fisica teorica alla chimica, alle letterature classiche) soltanto perché non attirano abbastanza le sponsorizzazioni e i nuovi studenti-clienti.

Dall’altra parte si tende a formare un intreccio di interessi tra politica, amministrazione pubblica ed economia, tra enti di ricerca, amministrazione pubblica e università: quest’intreccio impedisce una definizione delle responsabilità perché le decisioni non vengono più prese negli organi accademici democratici e rappresentativi (i consigli di facoltà o dipartimento) ma da gruppi ristretti e non definiti, di modo che il peso dei cattedratici non dipende tanto dal loro prestigio scientifico quanto dalla loro capacità di trattativa o di intrallazzo con i poteri esterni.

Ciò che è più grave è che i giovani, attirati dai titoli affascinanti delle nuove lauree triennali e specialistiche, possono poi ritrovarsi di fronte  ad un mercato che non esiste. Ciò sarebbe molto pericoloso nel lungo periodo per tutto il paese perché potremmo trovarci con l’albero della nostra cultura amputato di alcune radici che sono necessarie per la sua crescita e per la sua sopravvivenza.

Non si tratta di un discorso astratto. Occorre guarire l’Università dalla bulimia che la affligge da alcuni anni, patologia per la quale tende a ingoiare al suo interno funzioni per le quali non ha la competenza né gli strumenti adatti e costituire invece strutture parallele di formazione superiore (da fondare e organizzare in modo consortile insieme alle strutture produttive, dalle camere di commercio alle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori), strutture da condurre con altri sistemi che non sono propri del mondo universitario e con lo sguardo direttamente finalizzato al mondo del lavoro. Occorre una inversione di marcia e costituire per l’istruzione superiore due canali differenti: da una parte l’Università, dall’altra scuole tecniche superiori centrate in modo
prevalente sulla didattica, con frequenza obbligatoria e con una gestione imperniata sulle necessità del Paese.

A dire il vero si tratta di riprendere un cammino che era stato iniziato agli inizi degli anni ’90 dal ministro Antonio Ruberti con il progetto di istituire corsi di diploma paralleli, non coincidenti con i corsi di laurea, da costruire insieme alle realtà produttive, progetto stravolto in sede parlamentare ed accademica.

Questo mio ragionamento suppone una diagnosi totalmente negativa sulla sperimentazione iniziata dal ministro Luigi Berlinguer e perversamente sviluppata dal governo di centro-destra negli ultimi anni. Dichiaro di aver sempre condiviso (in un isolamento quasi totale negli organi accademici) il giudizio negativo sulle riforme introdotte negli ultimi dieci anni, secondo le critiche che ora soltanto riemergono di giorno in giorno più forti. Con il 3+2 e con il sistema attuale dei crediti non produciamo né cultura né preparazione professionale. Ma questo può essere argomento di ulteriori interventi.


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