«Non sono indignata perché non sono stata assunta, ma perché ho lavorato in nero». Anna (il nome è di fantasia) ha 39 anni e vive in Toscana. Anche lei ha avuto qualche esperienza in un call center e ha deciso di raccontare la peggiore nella quale si è imbattuta, tra aprile e maggio. Tutto inizia, come sempre, con un annuncio: «Azienda leader nel recupero del credito, con esperienza pluriennale nel settore, cerca collaboratori ambosessi». Le richieste sono le consuete – buona dialettica, conoscenza e uso del computer – per l’avviamento «alla professione di operatore di phone collection». Come in migliaia di casi simili, è previsto un corso formativo iniziale gratuito di una settimana e al termine dell’esperienza, nel caso in cui non scattasse l’assunzione, l’agenzia di formazione rilascerà un attestato.
Superato anche un test psicologico con 500 quesiti, inizia il periodo di formazione pratica in un ufficio di recupero crediti. Le stranezze, man mano che i giorni passano, iniziano a sommarsi. Il corso si tiene nella stessa sede di lavoro e – dopo la settimana iniziale – i partecipanti vengono fatti entrare dalla porta posteriore dell’ufficio, ma in quel momento si pensa soltanto ad ottenere i risultati migliori. Oltre otto ore al giorno, una gestione gerarchica di stampo ultra-militaresco, turni che terminano anche alle 21 e una famiglia a casa ad attenderla, Anna si impegna al massimo per ottenere l’assunzione. «Su sette sono stata lunica a superare sufficientemente la prova teorica – racconta – Sulla prova pratica lunica a superare lobiettivo minimo prefissato sulle percentuali di riscossione, distanziandomi di dieci punti dagli altri». I risultati vengono riportati in grafici continuamente sottoposti ai partecipanti. «La logica porterebbe a pensare: se non assumono me, non assumono nessuno! – continua Anna – Che senso avrebbe fare un corso se non per assumere colui o colei che ottiene i migliori risultati? Invece…».
Invece ad Anna le responsabili dell’agenzia di recupero e quella della formazione spiegano che i suoi risultati sono alti, ma «non sono tali da meritare unassunzione». Uno solo dei suoi sette colleghi, un ventenne, riesce a firmare un contratto. Però le viene offerto di continuare il corso per ottenere l’attestato finale. «Mi trovo a rifiutare perché non vedo motivo per cui continuare a lavorare tanto e gratis per raggiungere un obiettivo; obiettivo che adesso mi si dichiara non determinante, come in realtà precedentemente mi è stato fatto credere». Ed è alla parola «lavoro» che l’atteggiamento delle due responsabili cambia. Anna, in realtà, non ha lavorato gratis, ma ha semplicemente fatto un corso. Questa la tesi sostenuta dalle tutor. «Quando uno va a scuola è normale che non si venga pagati: tua figlia viene pagata per andare a scuola?», le chiede una delle due.
«In realtà mi sono state affidate delle pratiche, ho usato il mio nome come colei che opera per la nota agenzia di credito, per conto di una determinata finanziaria, per oltre 20 giorni almeno otto ore al giorno. E non è lavoro?», denuncia Anna. «In questi 20 giorni ho portato avanti 500 pratiche e quindi almeno 500 clienti della finanziaria o coobbligati hanno ricevuto la mia telefonata almeno una volta (o, spesso, molte più volte), nella quale ho fatto semplicemente il mio lavoro alla pari dei miei colleghi che presumo regolarmente assunti. E non è lavoro?».
Da questo momento i rapporti tra Anna e le responsabili del progetto si fanno via via sempre più tesi. Le viene chiesto di redigere una lettera con le motivazioni dell’abbandono del corso e la donna ne stila una, aggiungendo di aver frequentato le lezioni teoriche e di aver sbrigato le pratiche affidatele dall’agenzia tra il 9 aprile e il 5 maggio. Ma le viene chiesto di togliere l’ultima informazione, visto che il corso è promosso dall’agenzia formativa e non dal recupero crediti. Anna, dunque, chiede di visionare una copia del documento firmato al momento di iniziare il corso. Richiesta rifiutata. «Eventualmente» una delle responsabili si dice disposta a leggerglielo. Ma ancora manca il ritiro formale di Anna dal corso e la donna si rifiuta di siglare altri documenti, soprattutto se avallano una situazione non veritiera: «Di firme sconsiderate ne ho messe pure troppe», spiega. Quello da lei svolto non è uno stage (nessuna copertura assicurativa obbligatoria), né un corso teorico. Semplice – per così dire – lavoro non retribuito.
Quel lavoro, confessa la donna, non sarebbe stato il suo ideale. Nonostante la crisi, «lo avrei fatto giusto il tempo di recuperare il mese di spese sostenute e poi me ne sarei andata». Rispetto ad alcuni colleghi, l’atteggiamento di Anna nei confronti di chi si trova dall’altra parte del telefono è diverso. «”C’è chi ci marcia”, mi diceva una collega». Ma lei sentiva solo i pianti di quanti non hanno modo di pagare rate che mese dopo mese si accumulano. E poi, la sensazione di fare qualcosa di sbagliato. Come contattare anche vicini e parenti dei clienti che non si riuscivano a raggiungere per sollecitare i pagamenti.
Come se non bastasse, «ho lavorato in nero», sbotta. E per spiegare la sensazione di sfruttamento, fa un’analogia con dei cavalli spronati allo sfinimento. «Arrivi al traguardo – il raggiungimento degli obiettivi imposti da tutor e responsabili – ma poi ti dicono che non è determinante». Con il mito di un posto di lavoro o, in caso di insuccesso, quantomeno di un pezzo di carta «sfruttano le persone continuamente». Finito il turno di Anna e dei suoi colleghi, tocca ad una decina di nuovi aspiranti operatori di phone collection. «Abbiamo perso ogni diritto – commenta con amarezza – Abbiamo perso tutto».
[Foto di KellyP42]
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