Supponiamo che un ragazzo compia gli anni qualche giorno prima di Natale e che riceva due regali, entrambi confezionati perfettamente ma uno con carta lucida e nastro dorato, l’altro con carta opaca e nastro di velluto, per poi scoprire che in realtà contengono la stessa cosa.
È un po’ quello che capita agli studenti della Facoltà di lingue che si ritrovano davanti a tante belle e nuove parole pensate e confezionate per denominare in modo diverso due corsi di laurea che poi, nei fatti, sono la stessa cosa. Altrimenti non si spiegherebbe come mai un corso di laurea in Scienze per la comunicazione internazionale debba avere, nel piano di studi, materie come Storia sociale dei media, Tecniche e teorie dei mezzi di comunicazione di massa, Antropologia culturale o Semiotica come insegnamenti a scelta dello studente e Filologia o Geografia economico-politica come insegnamenti obbligatori. E neanche si comprende come tali materie specifiche del corso siano inserite solo a partire dal secondo anno.
Avviene lo stesso per il corso di Lingue e culture europee ma almeno in questo caso l’inserimento facoltativo di materie legate alla comunicazione non contraddice il fine del corso stesso.
Allora perché creare la ‘forma’ di un corso di laurea in linea con l’evoluzione dei tempi e della società – che si occupa sempre più di comunicazione, di pubblicità e di relazioni pubbliche – senza poi adattarvi un ‘contenuto’ idoneo? Perché fare finta di evolversi senza poi creare una didattica che possa fornire agli studenti strumenti adatti affinché essi possano, in futuro, ricoprire con competenza e consapevolezza tecnica, incarichi lavorativi legati alla comunicazione?
Tutto quello che viene in mente è la celebre frase del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, anche quella, ahimè, riferita alla Sicilia e alla sua gestione amministrativa e burocratica: “bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga come è”.
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