Consonanze e alterità in Luis Cernuda

IL POETA SPAGNOLO HA CANTATO LA MALINCONIA DEL LENTO SPROFONDARE DELLA VITA. APPUNTI SUL SUO POEMETTO “IL CESARE”

di Rossella Cerniglia

L’idea e il sentimento di una lenta estenuazione e di una inesorabile fine sono intimamente connessi al senso della vita. Si tratta, spesso, di un pensiero che vive di una lunga macerazione, di una estenuante malattia, di una morbosa e dolce, a volte, placida agonia. Un pensiero tanto intriso di tutte le cose, dell’andare verso, del naufragare, un pensiero che vive, insomma, dentro a questa costante dimensione che quietamente, subdolamente, trascina in quella conca cedevole dell’esistenza che è prossima al suo baratro: verità acquiescente che riposa in noi in un’amarezza pacata, trattenuta quasi da un’ultima dolcezza. Di fronte ad essa ogni realtà è arresa: ogni bellezza e ogni grandezza divengono allora memorabili proprio in virtù di essa.

Con questo spirito accolgo la pienezza che dilegua, soffro il pensiero della bellezza, della potenza, della grandezza e della maestà di ogni forma che dilegua.

Il poeta spagnolo Luis Cernuda ha cantato la malinconia che è in questo lento sprofondare, nell’inesausto dileguare di ogni forma. In particolare, nel poemetto Il Cesare, ne ha tracciato il senso, nostalgico e malinconico. Gloria e grandezza, qui, impallidiscono e sviliscono lo stesso passato, preannunciando un epilogo amaro, in una sorta di agonia dell’anima. Una bellissima e conturbante prova che dà immagine e sostanza al morire degli stessi sogni sui quali poggia il nostro stesso essere, la nostra vita. E il lento sfinimento, pacato e tuttavia esacerbante, è preludio al nulla della morte.

Nel Cesare è la grandezza che esala l’ultimo respiro, l’ultimo pensiero, l’ultimo sentimento, l’ultimo amore. Egli sta su un’isola (Capri, volontario esilio e ultima residenza dell’imperatore Tiberio, a cui si ispira la figura ), su una rocca scoscesa, inaccessibile, sola dimora adatta a lui. Intorno è solitudine, lo seguono errabondi pensieri, ricordi vaghi, fugaci, malate fantasie.

Si dipanano con travaglio e lentezza, si districano inesorabili dall’intricato viluppo che fu la sua vita vera, partecipata, attiva, per consegnarsi al giudizio presente, all’intimo bilancio delle passate esperienze. Egli sta con se stesso “padrone di sé e in sé del mondo”. In un eremo custodito, ma ostile, in un ozio voluto ed attediato trascorre il suo ultimo tempo. Tutto è languore: lo riscuote, a volte, una sferza d’energia, un eros subito acquietato, tramortito dall’estenuazione, compresso dalla recrudescenza di un tormento implacabile. Ed è il tormento di fronte alla fanciullezza fragile, sottomessa: “Pel piacere son vecchio. Voglio, a volte, /presso la pubertà arresa, ricambiarla / anch’io in modo perfetto. (…) “ma no: meglio (…) umiliarla, mentre striscio su di essa, / come lumaca su petalo nuovo (…). Oppure è l’improvviso senso di pienezza che ha un risveglio, un guizzo; ma l’idea delle ancora intatte energie cede presto al senso del caduco, della senescenza, della fine incombente: ”In qualche istante / sento la gioventù in me, piena, perenne, / (…) E non sembrano gli anni già vissuti / menomarla; (…) Ma poi, in un altro / istante, l’incalzante tempo aggrava il fardello di cui vorrei disfarmi.”

Il ripiegarsi dell’uomo sui propri pensieri, il discutere tra sé e sé nell’ozio, l’esaustivo appagamento d’ogni desiderio, lo hanno condotto a uno sfinimento che confina con il tedio e con la nausea: “Ma forse la sazietà non insidia / tutto, amore e capriccio?/ Perché incolpare, e di che, alcuno?” Il passato sembra stagnare, allora, in una zona lontana, rarefatta che è quasi estraneità da sé, non appartenenza a quel che pure era. Egli che conosce la gloria, la grandezza: “Il potere, chi mai lo conosce / come me? Il potere che corrompe / lo spirito, come un’infermità occulta / fa con la carne. Tuttavia è divino, / poiché isolato mi destina / a vedere lontane le creature, / come le vede l’aquila volando alta nell’aria.” Egli, che tale potere ha esercitato, ora è in preda a una lacerazione che svilisce il ricordo. Nel presente la paura lo assale, che la quiete sia attentata dal pugnale nemico nascosto nell’ombra: “Ma ecco suona cauto un calpestio (…) e m’angoscia un rumore inesistente / ognora.” (…). È così debole ormai il vittorioso / che il peso d’una piuma lo atterrisce.”

Il suo discorrere lo conduce inesorabile tra passato e presente, tra odio e amore, dentro sogni, fantasie e speranze prive di realtà, in un tormento che il distacco dalla vita pienamente vissuta lenisce e ottunde in un estremo commiato a quanto è stato il suo stesso essere e la sua stessa vita.

Conosco un altro grande uomo, un personaggio anch’esso esemplare e somigliante per statura e incisività al Cesare cernudiano, che nei versi di un altro magistrale poeta, parla o potrebbe parlare una lingua sostanzialmente affine. Una lingua imbevuta di sogno e di tristezze, intessuta di nostalgie e di rimpianto, ma, soprattutto, una lingua che è ormai della distanza, una lingua e un pensiero che sottolineano il distacco dalle cose del mondo e dalla stessa vita.

È il genio di Napoleone così come appare all’immaginazione del Manzoni che lo celebra nell’ode Il cinque maggio: la fine, tutta umana, di tanta grandezza, di tanto scalpore, di tanto plauso eppure di innegabile contrasto e ostilità. Ci appare, qui, non più nell’epopea guerriera, non nella grandiosità e sontuosità dell’effigie imperiale, ma nella dimensione solitaria di un travaglio tutto interiore, in cui il passato è svilito e il senso e il valore d’ogni cosa si attenua in prossimità della fine.

La grandezza della figura, commisurata alla solitudine e alla chiusa sofferenza di quegli estremi momenti, si colora, come avviene per Il Cesare cernudiano, di un fascino chiaroscurale nuovo che diviene sostanza stessa della poesia: “E sparve, e i dì nell’ozio/ chiuse in sì breve sponda” e ancora “Oh quante volte, al tacito/ morir d’un giorno inerte, / chinati i rai fulminei, / le braccia al sen conserte, / stette e dei dì che furono / l’assalse il sovvenir!”

Di fronte al vuoto e al senso di nullificazione e frustrazione presente è il passato, più e meno glorioso, a far sentire la sua voce, a rinascere e a rivivere nei suoi picchi radiosi e nelle sue ombre, nei suoi vertici e nei suoi abissi, nelle fortune e nelle miserie: “E ripensò le mobili / tende ei percossi valli / e il lampo dei manipoli, / e l’onda dei cavalli…”. Ma è un passato diluito nell’ormai fatale distanza dal tutto, nell’ormai fatale lontananza dalla stessa vita: ha il senso doloroso della fugacità e della vanità del tutto.

Ed è qui che poesia e poesia si fondono, qui che sentimento e sentimento si accorpano: nell’unica triste vicenda di una grandezza che declina portando con sé il senso di un universale dolore. Questo è il luogo dove ciò che non è detto parla grandiosamente attraverso pochi essenziali tratti. Vi è sottesa la rassegnazione e la sconfitta, lo sconforto che chiude in un piccolo senso ciò che è stato grande, che offusca la potenza, il turbine del divenire e di un destino che ha scritto grandi cose. In questa pietas che scorge l’uomo – il grande, l’eroe, il potente – farsi piccolo e fragile nell’interiore vicenda di solitudine che il destino della finitezza e della morte schiude, è l’elemento quanto vuoi esile di comunione tra i due testi e tra i due personaggi.

Il Cesare cernudiano potrebbe ben prestare parole e pensieri e sentimenti all’altro e viceversa, e questo, benché l’aspetto formale dei due testi poetici rimanga estraneo a ogni somiglianza e contiguità. Così, nonostante la difformità delle vicende vissute dai due personaggi, nonostante la distanza formale tra i due testi e la mancanza di relazione tra gli autori che li hanno prodotti, la prossimità della morte accomuna i due uomini -e i versi nei quali si dipana la loro vicenda umana- in un sentimento unico, tragico e fatale, in una più profonda identità che include e coinvolge l’intera condizione umana.

Foto di prima pagina tratta da parodos.it

 

 

 


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