Comu si dici?, il siciliano spiegato ai bambini moderni. «Genitori, il dialetto non è volgare: porta storia e cultura»

Comu si dici?. Prende il titolo da una domanda che rischia di scomparire – insieme alle sue risposte – il libro per ragazzi scritto da Marina Castiglione, ordinaria di Linguistica italiana all’università di Palermo, che si occupa di dialettologia siciliana e di corsi e progetti nelle scuole per la salvaguardia del patrimonio linguistico. Un percorso che stimola la riflessione sulla vita e sulla decadenza del dialetto siciliano, soppiantato dall’uso quotidiano di una lingua sempre più omologata. Come recuperare una tradizione che costituisce il ricco patrimonio culturale dell’isola? La docente propone di vedere questo tentativo come un gioco ed è ciò che fa nel suo libro (edizioni Museo Pasqualino di Palermo) con le illustrazioni di Roberta Ferruggia. La protagonista prende forma nelle linee disegnate di Rosinella, una bambina che cerca tra le lettere dell’alfabeto le parole più evocative del dialetto siculo. Ripercorre termini e sillabe riscoprendo man mano la lunga storia culturale da cui le famiglie hanno cominciato ad allontanarsi, convinte che l’uso del dialetto fosse sinonimo di volgarità. Da qui l’intento dell’autrice di conferire dignità a un elemento pilastro della nostra cultura, arricchita dalle mescolanze con il greco, l’arabo, il normanno, il castigliano, il catalano.

Da dove nasce l’idea di rivolgersi ai giovanissimi?
«Mi occupo di dialettologia dagli anni Novanta e, di solito, il mio campo sono i libri di natura scientifico-accademica. Negli ultimi tempi, però, mi sono resa conto che i ragazzi hanno perso quel rapporto emozionale con il linguaggio. Da qui è nata l’idea del libro, una proposta che potremmo anche definire ingenua per consentire ai giovani del nuovo millennio di riavvicinarsi al dialetto siciliano. Così ho incontrato Roberta Ferruggia, illustratrice che lavorava in stage presso il Museo Pasqualino di Palermo, e che ha dato forma e vita alla protagonista del racconto, Rosinella».

Una bambina con un nome poco contemporaneo, che sa di tradizione. Come lo ha scelto?
«Prende spunto dai racconti delle favole di Giuseppe Pitrè, il più importante studioso della tradizione popolare siciliana. Molti dei racconti della tradizione avevano come protagoniste personaggi femminili con i nomi tipici di Rosella, Rosuzza, Rosa».

E il percorso del libro è proprio il recupero, attraverso il linguaggio, della storia della cultura siciliana.
«Sì, è un modo per valorizzare una lingua ricchissima, che ha le sue sfumature locali e che nasce e fonda le sue radici da una storia antica di contaminazioni culturali, caratteristiche della Sicilia. Si pensi al normanno, al catalano, all’arabo. In tal senso il libro si divide in tre parti e la prima è dedicata proprio ai genitori, nel tentativo di tranquillizzarli di fronte all’idea di divulgare e mettere a contatto i figli con una lingua considerata, purtroppo, volgare e rozza».

Quale ricchezza può regalare invece?
«Attingere al mondo artistico, musicale, letterario, consente di riconoscere la vitalità di una lingua che si è evoluta nel tempo e che fa parte della tradizione. E che ha delle particolarità diverse in ogni località: si pensi alla parola fiore, in dialetto ciuri. Ogni città ha il suo modo di pronunciarlo e Rosinella, in questo senso, fa da guida per riscoprire le varie pronunce locali. Il dialetto prende origine dalla cultura rurale, contadina, e ciò fa sì che la modernità se ne voglia allontanare. Ma è un peccato, perché nel tempo si perdono termini che non hanno una traduzione nella lingua italiana».

L’uso delle illustrazioni è stato scelto per consentire un approccio più immediato ed emotivo a quello che è comunque uno studio?
«Le illustrazioni permettono di imparare a pronunciare le parole e le loro varianti. Rosinella le percorre e accompagna il lettore con un approccio semplice e creativo. La lingua dev’essere una cosa naturale, si impara nei contesti immersivi e prende vita grazie alle comunità, alle loro esigenze sociali e culturali. È un peccato prendere atto del cambiamento epocale che, in qualche modo, sta portando alla decadenza di questa lingua. Ma il mio libro non è un corso di grammatica, è uno stimolo per incuriosirsi, nella direzione di una riscoperta storica».


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