Come fare impazzire un’ape

Nei manuali di giornalismo raccomandano spesso di iniziare – e di finire – con una espressione nota e un po’ inflazionata, ma comunque alla portata di tutti. E io voglio allora iniziare con l’immortale frase della «Settimana Enigmistica»: Forse non tutti sanno che… Dunque: forse non tutti sanno che, per comunicare alle altre api dove stanno i fiori, le api esploratrici usano il seguente sistema: esprimono la distanza compiendo, nell’unità di tempo, un numero di giri inversamente proporzionale ad essa, ed esprimono la direzione proiettando di 90° gradi, sulla verticale, l’angolo di incidenza dei raggi solari. Quando lo racconto a qualcuno, studente o no, vedo facce ammirate. In effetti, le api sembrano avere un linguaggio complicatissimo, se per spiegare come funziona siamo costretti a ricorrere a concetti tratti dall’ottica, dalla geometria e dalla dinamica. Quasi invidiamo quelle bestioline, che sono capaci di una tale precisione senza essere state costrette a passare ore ed ore sui banchi di scuola. Eppure, in fondo, basta poco per scompaginare quest’organizzazione, questa meraviglia della natura (sempre per parlare come la «Settimana»): mentre le api esploratrici comunicano con le compagne, mettete il “giacimento” di fiori a un’altezza di circa 20 m, e poi guardate che succede. Qualche sadico ci ha già provato, e ha visto che tutte le api continuavano a cercare i fiori vicino al terreno, senza minimamente provare a guardare più in alto.

Immaginare tutte queste api che si guardano e non capiscono – o vedere le mosche che cercano di uscire da un vetro, e continuano a sbatterci sopra – ci spinge quasi al riso. Ma tutti noi ricordiamo con quale esaltazione il protagonista de La mosca di D. Cronenberg scopre i suoi nuovi e incredibili poteri, mano a mano che la sua natura umana si fonde con una natura di insetto. Insomma, non riusciamo a toglierci dalla testa l’impressione che gli animali siano alcune volte terribilmente intelligenti, e altre volte terribilmente stupidi. Perché?

Una buona risposta è stata data già parecchio tempo fa, da personaggi come il biologo von Uexküll o lo psicologo Mead: non ha senso cercare un mondo, una Natura con la maiuscola, al di là dei vari mondi e delle varie nature costituiti dalle interrelazioni tra le singole specie animali e ciò che sta loro intorno. Ogni specie ne ha una, più o meno complessa e più o meno irriducibile a quella delle altre specie. Dentro questa Umwelt (come la chiamava von Uexküll), o prospettiva (come la chiamava Mead) ogni animale si trova a meraviglia, perché il suo istinto gli dice sempre che cosa fare, e ogni problema ha una soluzione. Se noi abitiamo un mondo da ape, per esempio, non abbiamo bisogno di enfatizzare la dimensione verticale, perché i fiori si trovano sempre sul terreno (o, al massimo, su un albero). L’evoluzione non ha previsto etologi buontemponi che si divertono a mettere fiori in cima a un palo, e così il linguaggio delle api non prevede una “parola” per dire “guarda su!”.

Infatti, linguaggio animale e Umwelt vanno di pari passo: il primo è modellato sulla seconda, e risponde ad esigenze molto specifiche. Milioni di anni di evoluzione, in cui ogni giorno e ogni minuto ogni animale di una data specie doveva cercare di sopravvivere, hanno portato alla selezione e alla definizione di una determinata organizzazione della relazione animale-mondo, per cui gli animali non umani hanno mezzi di comunicazione per tutte le situazioni in cui gli serve, e solo per quelle. Una tale organizzazione (e la simbiosi tra linguaggio e Umwelt) funziona sempre, o quasi sempre: ovviamente, l’elemento più imprevedibile e più intrattabile è dato proprio dall’uomo – che infatti è la principale causa dell’estinzione di molte specie animali. Le Umwelt sono dunque (relativamente) semplici, descrittibili compiutamente (almeno in via teorica) e in qualche modo – come dire? – noiose. Quando le api hanno finito di parlare dei fiori, infatti, che possono fare? Non possono neppure buttarla sul sesso: quello lo fanno solo i fuchi, e solo con l’ape regina.

Ben diversa è la situazione per gli esseri umani, i quali hanno non solo un linguaggio, ma lingue, e abitano un vero e proprio Mondo. Cominciamo da quest’ultimo. L’uso della maiuscola non è dato tanto da quella forma di orgoglio (in certi casi, totalmente ingiustificata) che ci fa sentire più intelligenti di un’ape, ma da differenze sostanziali, che fanno sì che parlare di noi come animali più o meno intelligenti, in fondo, non abbia gran senso. In effetti, il nostro Mondo comporta un salto quantitativo immenso rispetto ai mondi animali, ma soprattutto un salto qualitativo (e si potrebbe dire che il secondo aspetto è una conseguenza del primo): il possesso di un linguaggio come il nostro, infatti, ha fatto “esplodere” quella che prima era solo la più complessa tra le Umwelt, e l’ha trasformata in un Mondo in cui le possibilità sono infinite, e infinite se ne possono inventare. In questo Mondo ci sono alberi, montagne e tavoli, ma anche istituzioni come il campionato di calcio e le elezioni (e, per alcuni, oggetti mentali estremamente complessi, come la Divina Commedia e la Critica della Ragion Pura).

L’antropologo tedesco Arnold Gehlen faceva notare come l’uomo presenti una singolare povertà di istinti: egli manca di qualsiasi attrezzatura per risolvere direttamente e immediatamente i problemi che gli si presentano; il semiologo argentino Luís Prieto, invece, vedeva il bicchiere mezzo pieno, e diceva che l’uomo è l’unico animale biologicamente programmato per sfuggire alla necessità biologica. Per questo l’essere umano vive di dubbi, e si sottopone a scelte, e passa una buona parte della sua vita a cercare di convincere gli altri della bontà di queste ultime. Più vicino a noi nello spazio e nel tempo, il filosofo del linguaggio Daniele Gambarara ha di recente affermato che la caratteristica del linguaggio umano, rispetto ai linguaggi animali, è data dalla sua straordinaria inefficacia: l’azione linguistica, infatti, non dà alcuna garanzia di successo. Eppure l’uomo si sottopone a un sistema di regole che mettono il linguaggio tra sé e l’ottenimento immediato dei suoi scopi. Per esempio, se è dentro un autobus stipato e vuole scendere alla prossima fermata, non spingerà gli altri, ma chiederà loro permesso, e in generale tratterà gli altri come persone, rispettando un sistema di convenzioni (per sua fortuna Gambarara non è abituato a prendere l’autobus, o la macchina, in certi posti che conosco – ma questa è un’altra storia). Insomma, il linguaggio è l’orizzonte costante e irrinunciabile attraverso cui ci muoviamo, senza certezze ma con enormi possibilità, in un complessissimo Mondo da uomini.

Questo tipo di situazione ha fatto dire ad alcuni studiosi che in fondo, per gli esseri umani, mondo e linguaggio son tutt’uno, e dunque non serve a nulla cercare di isolare qualcosa nella mente delle persone che non abbia a che fare con il linguaggio. E’ una posizione che ha una sua verità, ma a mio parere non deve essere portata fino in fondo. Se è vero, infatti, che l’avvento del linguaggio ha completamente “rimescolato” le nostre capacità cognitive precedenti (quando pensavamo come un’ape e tutto era semplice), è anche vero che dobbiamo cercare di “recuperare” i tratti di cognitività non linguistica dove sono rimasti e dove sono riconoscibili, se vogliamo sperare di ricostruire, almeno in via speculativa, come dall’ape siamo arrivati all’Homo sapiens sapiens.

Fin qui arriva la scienza cognitiva (o almeno buona parte di essa). Ma c’è un altro aspetto fondamentale, senza il quale il quadro della situazione non può essere completo. A differenza degli altri animali, l’uomo non ha solo un linguaggio innato, ma anche una molteplicità di lingue, che invece si imparano (e in certi casi si possono pure dimenticare). Queste lingue (circa 6000, secondo l’UNESCO – ma la metà di esse è a rischio concreto di estinzione nel prossimo secolo) sono tutte diverse, ma sopportano di essere tradotte. Sono come gli uomini: diversi, ma fatti per stare assieme. Per questo Ferdinand de Saussure pensava che per conoscere il linguaggio, e per conoscere l’uomo, si dovessero innanzitutto conoscere le lingue – e più lingue (e più diverse) che sia possibile. Poche persone come lui hanno capito l’importanza, la profondità e la bellezza di una molteplicità di lingue storico-naturali che sono tanti mondi diversi, che però possono comunicare tra loro e che ci danno un’immagine, sempre rivedibile, del Mondo. E’ davvero uno strano mondo, il nostro Mondo, se sopporta di essere raccontato in 6000 modi diversi (e in realtà in un’infinità di modi); ma forse è davvero il migliore nel quale valga la pena di vivere – con buona pace delle api.


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