Una lunga ricerca per spiegare le dibattute parole della Procura etnea sul quotidiano catanese. Tra le telefonate sull'aeroporto e le lamentele sui cronisti, qualcuno sarebbe stato «messo nella condizione di non nuocere»
Ciancio e la polemica sulla linea editoriale de La Sicilia Dal controllo dell’affare Comiso al «catanese Santapaola»
Un «padrone» capace di imporre la linea ai suoi giornalisti e un quotidiano «che non avrebbe sottolineato la mafiosità di alcuni personaggi o ne avrebbe taciuto la stessa esistenza fino a quando non è stata accertata dai giudici». E per contro una redazione che scrive di «non essere mai stata un perverso strumento di chissà quali strategie». La gestione che l’editore monopolista Mario Ciancio Sanfilippo ha fatto della creatura ereditata dallo zio Domenico, La Sicilia, è tornata di stretta attualità dopo le accuse della Procura di Catania, con la confisca in primo grado del patrimonio del potente imprenditore arrivata qualche mese dopo l’avvio del processo per concorso esterno in associazione mafiosa . Cinquant’anni di potere passati al setaccio, ma anche l’analisi della linea editoriale, «che – precisano i magistrati – non ha dato un contributo stabile a Cosa Nostra, ma in alcuni casi non è stata ostile». Episodi ricostruiti nei cinquanta faldoni d’indagine e accennati nella richiesta di confisca, ma che sembrano essersi persi nel dibattito pubblico concentrato su alcune frasi generiche contenute nel comunicato stampa della Procura etnea.
«Il giornale non avrebbe sottolineato la mafiosità di alcuni personaggi»
A chi e a cosa si riferiva il procuratore Carmelo Zuccaro durante la conferenza stampa della scorsa settimana? Con un lungo lavoro d’archivio, andando indietro fino al 1982, si arriva al 6 ottobre, un mese dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel calderone dell’inchiesta sugli esecutori spunta pure un catanese eccellente. Il Corriere della Sera mette nero su bianco il suo nome, il capomafia Nitto Santapaola, collegandolo all’arresto di Nicola Alvaro: «Apparterrebbe al gruppo del boss Santapaola, figura emergente del clan dei catanesi, ras dei guardaspalle di alcuni imprenditori». La Sicilia fa gli stessi nomi il giorno seguente, senza accostare il nome di Santapaola a Cosa Nostra: «Ordine di cattura per un latitante catanese», è il titolo. Il profilo del capomafia, già all’epoca accusato della strage della circonvallazione (16 giugno 1982, ndr) in cui venne ucciso il boss rivale Alfio Ferlito, viene pubblicato il giorno successivo, l’8 ottobre. Una foto in spalla sinistra fa da cornice all’approfondimento: «Incriminato il catanese Santapaola», è il titolo dell’edizione del giornale di Ciancio. La parola mafia compare solo quando si pone un interrogativo: «Catania città mafiosa? È ancora presto per dirlo anche perché la consistenza di questo fenomeno nuovo è tutto da accertare». Quando l’articolo viene pubblicato era già passato all’aldilà il boss Pippo Calderone e nel 1982 per le strade della città si contavano 62 morti ammazzati. Le domande vengono messe da parte sulle pagine del Corriere: «Nitto Santapaola, 43 anni, è l’uomo chiave della nuova mafia siciliana», scrive il corrispondente Antonio Ferrari. Alla fine la pista che avrebbe dovuto legare Santapaola all’omicidio Dalla Chiesa non si rivelerà corretta. Ma il profilo mafioso tracciato dal giornalista del Corsera sì.
La corrispondenza dal carcere
In tre occasioni è capitato che il giornale di Ciancio abbia ospitato firme particolari. Il primo a inaugurare la corrispondenza dai penitenziari è Antonio Cortese. Il killer di Adrano accusato, e poi scagionato, dell’omicidio del giornalista Pippo Fava. Più di recente è toccato a Salvatore Cappello e Vincenzo Santapaola. Entrambi reclusi al carcere duro e, almeno per legge, impossibilitati a qualsiasi comunicazione con l’esterno. Il testo vergato da Cappello nel febbraio 2004 ha una breve introduzione, utile a fare conoscere al lettore lo spessore criminale di quel boss che si rivolge a commercianti e artigiani: «Se vengono a chiedervi soldi a nome di Cappello sappiate che io non c’entro niente. Non faccio parte di nessun clan». Secondo La Sicilia, quelle parole sono la comunicazione della sua resa. Ma qualche anno dopo il padrino verrà accusato di comunicare dal carcere con i suoi affiliati anche attraverso alcuni fotomontaggi e, secondo l’ex reggente Gaetano D’Aquino, tramite quella lettera. Per Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto, non c’è invece nessun testo di presentazione. Così in prima pagina nel 2008 finisce l’autodifesa, dal 41bis e senza autorizzazione, dell’uomo allora considerato il nuovo reggente della famiglia mafiosa di Cosa nostra e oggi condannato in via definitiva per mafia a 18 anni.
Gli affari e la libertà di stampa
Sul punto la procura non ha dubbi definendo «piegata alla volontà di Ciancio» la linea de La Sicilia. Un riferimento che così appare troppo generico – e probabilmente ingeneroso nei confronti di alcuni colleghi – ma che nelle carte dell’inchiesta viene specificato tramite alcuni episodi. Gli investigatori si soffermano ad esempio sul mega progetto edilizio del Pua di Catania e sull’aeroporto di Comiso, affari in cui ha avuto interessi proprio l’editore etneo. Nel primo caso, scrivono i magistrati, Ciancio «si lamentava di un esposto presentato dagli ambientalisti e curava che la notizia non ricevesse alcuna pubblicazione nel quotidiano», al contrario degli articoli che esaltavano l’importanza strategica per la città del piano da realizzarsi in gran parte proprio sui terreni dell’imprenditore-direttore. Nel secondo caso, grazie al suo potere mediatico, Ciancio avrebbe «preso personalmente tutte le decisioni relative alla pubblicazione di qualsiasi articolo sulla vicenda aeroporto», si legge negli atti. Nel 2007 in una telefonata tra l’editore e un corrispondente da Ragusa si sottolinea come ogni cosa sullo scalo sarebbe dovuta passare dalla sua scrivania. Un altro caso riguarda poi le lamentele – riferite a Ciancio da una terza persona – di un sindaco della provincia di Catania nei confronti di un corrispondente de La Sicilia, che avrebbe maltratto il primo cittadino attraverso il suo blog personale. Lamentele davanti alle quali l’editore, intercettato, replica di essere tranquillo. Quel giornalista, infatti, sarebbe stato «messo nelle condizioni di non nuocere» – «Sul giornale non può parlare», rassicurava il direttore – anche grazie al controllo di un capo servizio. E ancora: «Basta pubblicare la foto con lui». Solo un pezzo di un dialogo finito agli atti dell’inchiesta in cui Ciancio dialoga con il figlio Domenico. Manca poco alle Amministrative 2008 a Catania e i due valutano la possibilità di mettere sul giornale la foto del possibile candidato sindaco del centrodestra con l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. Così da lanciare un messaggio a tutti. Magistrati compresi.
Visite in redazione
Nell’elenco degli episodi finiti agli atti dell’indagine ci sono le visite del boss Pippo Ercolano in via Odorico da Pordenone. Due occasioni, nel 1982 e la più nota nel 1993, in cui il padre del killer del giornalista Pippo Fava si sarebbe lamentato di alcune pubblicazioni. In entrambi casi al centro ci sono i pezzi sull’azienda Avimec, di proprietà di Ercolano, che di Nitto Santapaola era il cognato. Ma se nel secondo caso la vicenda è stata raccontata ai magistrati dal giornalista autore del pezzo, nel primo episodio il narratore d’eccezione è Angelo Siino, ministro dei lavori di pubblici di Cosa nostra. Il pentito svela di avere accompagnato personalmente Ercolano ma di non avere visto Ciancio. Due cronisti avrebbero accolto il capomafia chiamandolo rispettosamente «zu Pippu». Siino racconta anche di come Ercolano si sarebbe mosso «in quel luogo come se gli fosse perfettamente noto e come tale era perfettamente conosciuto».
I pentiti
Il nome di Dalla Chiesa torna d’attualità nel 1994 quando La Sicilia annuncia che il nuovo pentito Maurizio Avola si sarebbe autoaccusato in un colpo solo del delitto di Pippo Fava e di quello precedente del generale, che avrebbe commesso quando ancora non era nemmeno un uomo d’onore. Un racconto che aveva dell’incredibile. A firmare l’articolo sul quotidiano siciliano è Salvatore Pernice, collaboratore da Messina. Ma un testo quasi identico compare lo stesso giorno sul quotidiano Il Giorno a firma Tony Zermo. Il coinvolgimento di Avola nell’omicidio Dalla Chiesa è in realtà falso e viene seccamente smentito dalla procura, con tanto di conferenza stampa, in cui i magistrati non esitano a definire l’articolo pubblicato il 2 giugno 1994 come frutto di una precisa «strategia delle ombre» per screditare il collaboratore di giustizia, che verrà poi condannato come esecutore materiale dell’omicidio Fava. Dieci anni prima, a essere stato bruciato sulle pagine del quotidiano etneo era stato Luciano Grasso. Pronto a clamorose rivelazioni sul delitto Fava, come anticipava La Sicilia il giorno prima dell’interrogatorio, inserendo nell’articolo anche l’indirizzo e il civico di residenza dell’uomo. L’indomani Grasso restò in silenzio davanti ai pubblici ministeri.
Il mancato necrologio del commissario Beppe Montana
È il 1985 e, passati tre mesi dall’uccisione per mano mafiosa del poliziotto, i familiari si vedono respingere un necrologio in cui si citava il disprezzo per Cosa nostra «e i suoi anonimi sostenitori». «Testo respinto allo sportello su disposizione del vicedirettore Conigliaro e del direttore Mario Ciancio», è scritto a penna sul foglio rimasto alla famiglia. Un fatto finito agli atti del processo con la costituzione dei fratelli della vittima come parti offese. La Sicilia non riserverà lo stesso trattamento ai familiari del boss Pippo Ercolano, deceduto nel 2012 e ricordato con un necrologio anche dal figlio capomafia ergastolano Aldo. Stessa modalità, più di recente, con il necrologio a Sebastiano D’Emanuele, condannato per omicidio e con pesanti ombre di mafia oltre alla parentela eccellente proprio con il boss Nitto Santapaola.
L’uccisione di Pippo Fava.
Chi lo ha assassinato? Da dove è partito l’ordine? Chi sono i mandanti occulti? Alcune di queste domande non hanno avuto una risposta dai tribunali ma di certo resta il racconto del delitto del direttore de I Siciliani fornito dal quotidiano di Ciancio, Un nome su tutti è quello di Tony Zermo, editorialista e firma di punta del giornale. «Ha fatto i nomi che facevano tutti», scriveva nel 1984. E ancora: «Non aveva fatto nulla di particolarmente importante». Soltanto un anno prima avveniva la pubblicazione da parte di Fava del noto articolo I cavalieri dell’apocalisse mafioso, sul connubio mafia e imprenditoria alle pendici dell’Etna. Una settimana dopo l’omicidio, su La Sicilia tornano gli interrogativi sull’esistenza di Cosa nostra. L’occasione è la visita in città dell’alto commissario antimafia: «Le facciamo una domanda forse banale ma ricorrente: ma la mafia esiste a Catania?».