Che fine ha fatto il piano dell’aria dopo lo stop del Tar? Arpa: «Nuovi dati disponibili? Elaborarli richiede tempo»

Con il pensiero a non respirare il virus Sars-Cov-2, tutto il resto che si trova nell’aria è finito per passare in secondo piano. Eppure tra pochi giorni sarà un anno da quando il Tar di Palermo ha accolto il ricorso presentato dalla Raffineria di Milazzo contro le stringenti restrizioni introdotte dalla Regione in materia di emissioni nell’atmosfera. Con quella sentenza, la numero 1620 del 2020, i giudici amministrativi accolsero i rilievi fatti dal colosso industriale, specialmente per ciò che concerneva l’utilizzo di dati troppo vetusti per la redazione di quel piano dell’aria che, approvato nel 2018, pur non essendo stato cassato nella sua totalità, di fatto è stato reso innocuo nella parte più temuta: l’imposizione di limiti più rigidi a carico delle aziende. Richiesta, quest’ultima, che negli anni è stata fatta in particolar modo dalle popolazioni dei territori segnati dalla presenza pluridecennale di petrolchimici e cementifici. Istanze e preoccupazioni che dal quadrilatero del Siracusano alla valle del Mela, passando per Gela, si riflettono anche nel rapporto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento. 

Dalla scorsa estate il quadro non è cambiato. Anzi, si sono accumulate le pronunce a favore delle aziende. Sentenze – l’ultima delle quali riguardante Italcementi, l’azienda che opera a Isola delle Femmine finita al centro delle cronache per un’autorizzazione ambientale da anni scaduta e il cui rinnovo non sembra facile – che per larga parte risultano una copia l’una dell’altra e che mettono all’angolo la Regione. «Il Piano dell’aria impone alla società misure e attività che, a prescindere dalla loro concreta fattibilità, comporterebbero oneri ingenti e del tutto sproporzionati a fronte di dati non conformi ai necessari presupposti normativi e finanche rispetto al beneficio ambientale perseguito», è uno dei passaggi più eloquenti che ricorre. Nel mirino dei legali dei colossi industriali è finita una raccolta di dati risalenti al 2005, praticamente tre lustri prima rispetto alla data di approvazione del piano. La difesa dei privati è riassumibile in questa domanda: come è possibile fare valutazioni sull’operato delle aziende, e imporre nuovi limiti, se si ha una fotografia per nulla attinente allo stato dell’arte attuale? Pensiero rafforzato dal convincimento, da parte delle aziende, di avere nel frattempo adottato nuove tecnologie più sensibili agli impatti ambientali. 

Navigando sul sito di Arpa Sicilia, l’agenzia regionale che al piano dell’aria ha lavorato, ci si imbatte in una lunga serie di dati riguardanti il monitoraggio dell’aria risalenti a tempi decisamente più recenti. L’ultimo visualizzabile fa riferimento al 2019, ma andando a ritroso si arriva fino al 2010. «Su questo tema purtroppo si fa confusione – commenta a MeridioNews Anna Abita, direttrice dell’Uoc Qualità dell’aria – Il Tar, quando parla dei dati di metà anni Duemila, tira in ballo la zonizzazione che è un’operazione funzionale a pianificare il controllo del territorio, mettendo insieme, appunto per zone, punti in cui il carico di emissioni risulta omogeneo. Per il resto, le valutazioni sugli sforamenti di determinati parametri e la decisione di introdurre limitazioni rigide si sono basate su rilevamenti più recenti, compreso il monitoraggio della qualità dell’aria del 2015. E consideriamo che si iniziò a lavorare al piano dell’aria nel 2016». Da allora nelle mani di Arpa, e di conseguenza della Regione, ci sono anche dati ancora più recenti, eppure a livello pratico le cose non sono cambiate: gli insediamenti industriali continuano a operare come prima, forti anche della legittimazione ricevuta dal Tar. «Stiamo lavorando per aggiornare l’inventario delle emissioni, ma sono operazioni che richiedono tempo – continua Abita – Servirà anche a creare una nuova zonizzazione, che probabilmente convincerebbe i giudici amministrativi della fondatezza delle motivazioni alla base delle misure che avevamo previsto nel 2018 ma che – sottolinea la direttrice della Uoc Qualità dell’aria – da un punto di vista della capacità di misurare le emissioni degli impianti in maniera corretta non incide. Quello già lo si fa».

Parole che in qualche modo collidono con la decisione presa l’anno scorso dalla Regione Siciliana, e nello specifico dall’assessorato all’Ambiente guidato da Toto Cordaro, di non oppore ricorso alle sentenze del Tar, rinunciando al passaggio al Consiglio di giustizia amministrativa. «Sono decisioni che spettano all’organo politico, posso dire che l’Arpa diede il proprio parere», chiosa Abita. Guardando al calendario, la sensazione è che si possa arrivare al 2023 – anno in cui in base alla normativa il piano dell’aria dovrebbe essere sottoposto ad aggiornamento – nell’attuale situazione di stallo. A meno che la Regione Siciliana stavolta, i tempi ancora lo consentono, non decida di presentare ricorso contro la sentenza che ha dato ragione alla Italcementi provando a sostenere la validità dello studio fatto da quanti lavorarono al piano dell’aria, ritenendo necessario porre un freno alle emissioni. Il tema negli ultimi anni ha tenuto banco a più livelli, compreso quello sindacale, con alcune prese di posizioni a difesa dell’occupazione all’interno degli stabilimenti potenzialmente minacciata da sconvolgimenti nella operatività delle grandi aziende industriali. Occupazione che, questo è certo, sarà anche al centro della campagna elettorale per le Regionali dell’anno prossimo.


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