Che fare per salvare l’Autonomia siciliana? Una proposta

Perché la Sicilia non è una nazione? Tra le tante possibili risposte io me ne sono data sempre una, sempre la stessa: perché noi siciliani non siamo un popolo.

Chi studia la storia della Sicilia in cerca dei suoi caratteri originari scopre con grande sofferenza che lo spirito siciliano, il nostro spirito, è fondamentalmente alieno da tutto ciò che è sociale e politico e che questa deficienza ha assunto nelle varie epoche caratteri catastrofici. Può essere di consolazione sapere che questa è la definizione che nelle sue “Considerazioni di un impolitico” Thomas Mann dà dei suoi connazionali, del popolo tedesco? Forse no.

Si è mai vista una società più frammentata? (e questo è un tragico ossimoro, una contraddizione in termini). I proverbi, si sa, sono dei distillati, ma non sempre come si suole dire esprimono la saggezza di un popolo. Sentite questo, messinese. “Fuora da’ me basola, puru a mesola”. Vale a dire che tutto quello che succede fuori dal pavimento(a basola) di casa mia, fosse anche a mia sorella (a mesula), non mi riguarda.

Una prima immediata conseguenza è il primato del particolare, una esasperata litigiosità, la ricerca maniacale del proprio interesse, il bisogno assoluto di far trionfare il proprio egoismo.

Insomma la Sicilia, per dirla con Benedetto Croce, è un paradiso abitato da diavoli.

Ricordo,ancora stupefatto, di una furibonda contesa ideologica scoppiata in occasione della presentazione del libro di Ignazio Coppola: ”Risorgimento e risarcimento”. Quel pomeriggio ci si divise su tutto: a chi dare la colpa, a chi attribuire i meriti, se tutto cominciò con la caduta di Siracusa, o piuttosto per altre improbabili ragioni oppure ancora se se, se, se …

Ognuno aveva la sua ricetta, per ogni cosa c’era una causa e una soluzione diversa. Il tutto con un accanimento, un’acredine e una determinazione … quasi che in quella libreria si giocasse una partita decisiva … Quella di a chi e da chi la notte stessa dovesse essere incoronato re. Re di una nuova Sicilia, forte, ricca, tornata indipendente e sovrana.

E’ ovvio, se le premesse sono vere, che la Sicilia ha perduto la sua indipendenza quasi esclusivamente per suoi demeriti, così come senza suoi meriti l’aveva conquistata. La nostra storia è intrisa di lotte fratricide tra quelle che una volta si chiamavano classi e all’interno di ciascuna di esse.

Si dice sempre che chi ha di più deve dare di più.

La classe dominante(quella baronale) invece ha fatto sempre e soltanto i suoi interessi, cercando di avere di più del di più. E ha misurato i suoi comportamenti con il metro dei propri interessi e delle sue convenienze. Il suo concetto di giustizia ha sempre ed esclusivamente coinciso con tutto ciò che le consentiva di conservare i propri privilegi. E per questo ha fomentato rivolte, ribellioni e persino rivoluzioni, mandando avanti il popolo, salvo poi a tradirlo. Spesso gli andava bene, altre volte, andando per suonare, finì suonata. Una volta, ad un loro re che chiedeva loro di giustificare il possesso della terra, i baroni risposero che il fatto di possederla, la terra, era prova del diritto a possederla. E’ ovvio che una classe così era destinata a scomparire, magari lentamente. E così è stato,non senza aver causato danni irreversibili! E però i più fortunati tra loro epigoni vivono delle rendite che hanno ricavato dalla vendita delle loro ville e dei loro terreni ai palazzinari che hanno saccheggiato le città.

Altro che Gattopardi!. Parassiti erano e sfruttatori. Nulla di più.

Non la faccio troppo lunga.

Saltiamo all’Unità. Nulla dirò sulle mistificazioni risorgimentali e sulle conseguenze che una grande menzogna ha avuto sulla storia del paese. Però un pensierino ad alta voce lo voglio fare. Se qualcuno un giorno si affacciasse da una finestra di un certo palazzo posto su un certo colle e confessasse agli italiani e al mondo che la battaglia di Calatafimi era su scherzi a parte, che il generale che guidava i borbonici era un traditore; che era stato corrotto, che finì nel carcere di Ischia per alto tradimento, che i suoi cinque figli furono inglobati con passaggio lineare nell’esercito piemontese e se poi ci spiegasse perché i borbonici che avevano sempre soffocato nel sangue ogni rivolta e ogni invasione cedettero il passo a Garibaldi che attraversò il Sud come Mosè il Mar Rosso … allora, forse la VERITA’ romperebbe gli argini e come un fiume in piena invaderebbe corridoi riservati, sotterranei, cunicoli e stanze segrete e porterebbe alla luce tutti gli armadi che contengono i misteri di Portella della Ginestra, della banda Giuliano e, via via, di piazza Fontana, dell’Italicus, di piazza della Loggia, della stazione di Bologna, di Ustica e tutti gli altri di questi giorni; e, forse, finalmente, questa nostra Italia, questa vecchia, stanca, confusa, smarrita espressione geografica, diventerebbe una nazione pacificata, solidale e unita, unita anche quando la nazionale non vince i mondiali di calcio, e, dunque, diventerebbe quel grande paese che potrebbe essere.

Ripassiamo un po’ di storia non ufficiale, quella che ai nostri figli e a nostri nipoti non viene insegnata.

Nei primi sei anni dell’Unità la Sicilia fu sottoposta per ben tre volte allo stato d’assedio. La prima subito subito, nel 1862, chi sa mai qualcuno si fosse fatto qualche illusione sui perché dell’Unità, e che lasciò tracce terribili. Il secondo appena un anno dopo, con l’estensione nell’isola degli effetti della legge sul brigantaggio meridionale, la famigerata legge Pica. Fu un arbitrio ministeriale e l’isola ebbe il piacere di conoscere i metodi da macellaio di un farabutto e criminale di guerra, il generale piemontese Govone, degno compare di altri miserabili come Pinelli, Cialdini e Bava Beccaris, quello dei cannoni ad alzo zero contro i manifestanti di Milano, eroica e gloriosa azione per la quale il Re Buono, Umberto I, lo insignì di una alta onorificenza ( e meno male che era BUONO!!).

Lo stato d’assedio illegale fu ratificato con legge dello Stato dopo sei mesi e furono sei mesi, scrive Mach Smith, in cui l’isola fu in balia di un assoluto e implacabile arbitrio militare. Il terzo stato di assedio fu imposto dopo l’insurrezione di Palermo nel 1866, la così detta rivolta del sette e mezzo e, nonostante l’insurrezione fosse limitata a Palermo, non parve vero di poterlo imporre a tutta la Sicilia. Il tutto corredato da lunghe parentesi di regimi di leggi eccezionali con le annesse facoltà di privare o limitare le libertà personali di quanti fossero soltanto sospettati di favorire direttamente o indirettamente il brigantaggio, fenomeno peraltro quasi del tutto estraneo alla Sicilia. E della truce repressione dei Fasci siciliani ne vogliamo parlare? La statua del massacratore dei suoi corregionali troneggia ancora nella Piazza Croci, a Palermo, e sul piedistallo è incisa una sua pregevole riflessione: “La monarchia ci unisce” (manca il seguito della frase che Crispi ha pure detto:” La repubblica ci divide”). Che almeno togliessero questo!

Troppo onore, comunque, quel trattamento, da parte del re galantuomo e del suo imbelle figlio, il re buono, quando sarebbero bastati onesti insegnanti elementari!

Ma il tradimento più grave fu quello di fare decadere in Parlamento il disegno di legge negoziato dagli eroici patrioti siciliani con Cavour come viatico per la calata di Garibaldi. Il provvedimento prevedeva la salvaguardia di una certa autonomia della Sicilia, era una sorta di mini statuto che fu messo in non cale col pretesto dei disordini che infiammavano l’isola. Le conseguenze dell’estensione nell’isola del regime fiscale, amministrativo e di leva piemontesi furono devastanti.

Veniamo al secondo dopoguerra. Ricordiamoci che in Sicilia la seconda guerra mondiale finì il 3 settembre del 1943, con l’armistizio di Cassibile. C’era tutto il tempo per lavorare seriamente e unitariamente ad un disegno autonomistico forte e persino per esperire un nobile tentativo di riaffermare l’indipendenza. Ci sono in Europa tanti Stati figli di guerre perse e vinte! Alcuni, cito l’Irlanda, l’Islanda, il Belgio, la Danimarca, l’Albania, la Grecia, i paesi baltici, sono in possesso di elementi costitutivi, popolazione e territorio inferiori, a volte entrambi, a quelli della Sicilia. Ma anche in quel caso ci siamo coperti di gloria!

Ed eccoci all’Autonomia, allo Statuto della Regione Siciliana.

Prima di addentrarci credo sia utile una riflessione.

Il nostro è uno statuto ottriato, octroyè, dicono i costituzionalisti doc; dato, quindi, e non votato. E’ stato calato dall’alto. Per fortuna è il frutto lucido e intelligente di un gruppo di uomini esperti, sensibili e lungimiranti. Ma, pur essendo un grande strumento di democrazia, non nasce democraticamente, come sarebbe potuto essere se suoi autori fossero stati democraticamente eletti dai siciliani o, quanto meno, se i siciliani fossero stati chiamati a ratificarlo con un referendum. Questo potrebbe avere importanza nello studio dei suoi contenuti e del suo percorso. Ma tant’è. Veniamo al merito.

Sappiamo che i suoi contenuti sono sostanzialmente un recepimento delle tesi riparazioniste di Enrico La Loggia(quello vero!), il quale nella sua “Sintesi storica della questione siciliana” dimostra in modo inoppugnabile che l’isola in meno di 100 anni di unità era stata spogliata e depredata, che era stata pretermessa in tutti i piani e le opere di crescita e sviluppo, il tutto a pro’ del nord.

Permettetemi a tal proposito un intermezzo leggero, ma non troppo. Ricordate il film “Totò, Peppino e la malafemmina?” Quello, per capirci, del leggendario “Noios vulevan savuar dove dobbiamo andare per andare dove dobbiamo andare? I nostri eroi sono appena scesi dal treno alla stazione di Milano. Siamo alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso. Il treno dal quale erano scesi viaggiava su una rete elettrificata. Potete controllare. Mi fermo qui.

Il meccanismo statutario ideato dai fondatori costruisce un rapporto razionale e osmotico tra competenze e risorse per esercitarle, in un armonico processo di bilanciamento e sviluppo. Possiamo sostenere con forza che lo Stato,approvando quel documento ed elevandolo al rango di legge costituzionale pur senza ovviamente affermarlo aveva riconosciuto nei fatti il buon diritto della Sicilia ad un risarcimento storico, fornendo all’Isola uno strumento potente per realizzare quello scopo e realizzare se stessa.

Dice il padre Dante: “T’ho messo innanzi,or per te ti ciba”. Toccava a noi, a noi siciliani.

Il seme della dissoluzione dell’Autonomia era stato già gettato da Salvatore Aldisio, l’Alto Commissario per la Sicilia, il quale aveva già stabilito che in tutti gli organismi di governo a tutti i livelli dell’isola dovevano essere presenti i partiti rappresentati nel CNL. Il che significava che i partiti del nord erano anche i partiti del sud. Era stata aperta la strada all’ ascarismo.

La presa diretta tra Roma e Palermo significherà per sempre che il Governo centrale è arbitro delle priorità nazionali (il che al 90% significa gli interessi del Nord), e che se, in nome di quelle priorità, devono ancora una volta essere sacrificati gli interessi siciliani, pazienza.

In quella temperie(siamo nell’immediato dopoguerra!) quale segretario regionale di qualunque partito isolano avrebbe potuto opporsi alla decisioni romane senza perdere il posto? E cosi i governi regionali vedranno ridursi significativamente il proprio raggio d’azione. Ma noi ci abbiamo messo del nostro, come vedremo!!

In tanta desolazione soccorre l’ucronia, un tempo immaginario, come l’utopia è un luogo immaginario; e dunque una storia immaginaria, un storia che non c’è stata. Immaginiamo quindi una storia in cui i siciliani tutti e per transitività i loro rappresentanti avessero fatto fronte comune contro il governo centrale a difesa delle prerogative dello Statuto e della sua applicazione integrale, chiudendo ogni spazio all’ascarismo. Oso dire la parola tanto vituperata, se avessero fatto LEGA? Come sarebbe finita? Lascio la risposta al lettore.

Questo non accadde, ma accadde di peggio. Nel giro di pochi anni, già nelle prime legislature, la Regione, lungi dall’ottenere la piena attuazione dello Statuto, se ne lasciò scippare contenuti vitali. Il meccanismo di attuazione dello Statuto fu affidato alla emanazione di norme,dette appunto di attuazione, frutto di una intesa bilaterale, tra eguali, la Regione e l’amministrazione statale. Era quello il momento di tirare fuori gli attributi, specie perché fu subito chiaro che il Governo centrale prendeva a considerare lo Statuto e molte delle sue norme il frutto di una necessaria concessione tattica, volta a spegnere i fuochi dell’indipendentismo, in ciò comportandosi come un qualunque borbone.

Furono via persi il diritto di imporre la registrazione con riserva alla Corte dei Conti, il diritto di emanare decreti legge, l’Alta Corte, la Corte di Cassazione, la competenza esclusiva in materia di istruzione elementare, una parte cospicua delle risorse tributarie degli art.36,37,40, i fondi dell’art. 38; la potestà di autorizzare compagnie assicuratrici ad esercitare la relativa attività. Perché?

I perché sono tanti. Perché alcuni poteri furono mal esercitati, certamente. Per esempio il potere di emanare decreti d’urgenza e quello della registrazione con riserva andarono a picco perché i governi dell’epoca si ostinarono a difendere l’assunzione diretta di scagnozzi di qualche politico dell’epoca, oppure perché qualche assicuratore scappava in Brasile con i miliardi degli assicurati, cosa quest’ultima che fu possibile perché i controlli regionali non esistevano o se esistevano erano male esercitati. Ma allora è vizio, dirà qualcuno!

Un piccolo doveroso approfondimento riguarda un articolo ormai dimenticato dello Statuto, l’art.31. Lo Stato non vi ha mai dato attuazione, la Regione si è ben guardata dal chiederla.

L’art. 31 dello Statuto conferisce al Presidente della Regione i poteri di polizia. E’ una norma fondante dell’autonomia, ma lo Stato non si è fidato. Ha fatto bene? Non lo so. Ha fatto male? Non lo so! Le vicende evolutive della mafia, però, da libera associazione di vessatori rurali ascesa all’empireo dell’imprenditoria globale, sono sotto gli occhi di tutti e ciascuno può esprimere il suo giudizio e formulare i più arditi pensieri, specialmente in questi giorni avvelenati da uno scontro istituzionale al massimo livello e segnati da un processo dagli esiti imprevedibili.

Logicamente e strutturalmente correlata alle disposizioni dell’art 31 è quella contenuta nel precedente art. 21 dello Statuto. Noi siamo abituati pensare che il Prefetto sia il massimo organo statale nella Regione. Non è cosi! E’ il Presidente della Regione. Egli, recita la disposizione contenuta nell’art. 21, rappresenta nella Regione il Governo dello Stato che può tuttavia inviare temporaneamente propri commissari per l’esplicazione di singole funzioni statali. Avete idea di che cosa significa questo?

Due cose. Uno: il superamento e l’abolizione delle prefetture in tutta l’Isola; due: la giuridica impossibilità da parte dello Stato di aprire in Sicilia suoi uffici periferici autonomi rispetto alla Regione. Ovviamente, anche questo articolo non è mai stato applicato. Peggio. I prefetti sono diventati punti di riferimento per tutte le questioni che l’Amministrazione regionale non sa, non può o non vuole risolvere, e gli uffici periferici dello Stato prolificano e prosperano e mai, dico mai, i presidenti hanno rivendicato quel ruolo che loro compete.

Ma la vera radice della mala pianta secondo me è un’altra.

Il più antico Parlamento d’Europa (nel quale erano presenti tutte forze politiche, dai postfascisti ai comunisti), come suo primo atto, lungi dall’affermare e proclamare come sua ragion d’essere i principi etici che presiedevano all’autonomia, decise all’unanimità di equiparare il trattamento economico dei deputati regionali a quello dei senatori della Repubblica. Lo fecero come ladri nella notte, a porte chiuse, ma lo fecero. Non c’è che dire, un grande gesto di elevazione morale di fronte ad una Sicilia piagata dalla guerra, dilaniata da sanguinose lotte intestine, povera, rurale, arretrata, analfabeta.

“Un’ingiustizia nazionale è la strada più sicura verso la decadenza di una nazione”, diceva Gladstone. E quella fu una gravissima ingiustizia di cui ogni giorno molti siciliani, direttamente e indirettamente, pagano i prezzi. Perché? Perché chi commette un’ingiustizia, e ne è consapevole, diventa debole e vulnerabile, viene assediato da richieste ingiuste e il suo scudo inevitabilmente si abbassa.

Come è considerato chi, pur potendo eccedere, si è moderato, rispetto a chi è stato vinto dalla propria avidità? Che cosa saremmo disposti a sacrificare per il primo e che cosa non avremmo l’ardire di chiedere al secondo? Chi vive nell’ingiustizia e si nutre ogni giorno dei frutti avvelenati dell’ingiustizia, di quale messaggio è portatore? Quale autorevolezza può avere per imporre sacrifici e rinunce; quale autorevolezza può avere nelle trattative, nei negoziati; quale credibilità può avere quando si riempie la bocca con parole di cui ignora il significato: equità, dovere, giustizia sociale, legalità?

Volete una prova? Si legge nella relativa delibera del Consiglio di Presidenza dell’Assemblea regionale, che ”per ragioni di equità” (equità, notate la sublimazione del senso di colpa, del bisogno di complicità), anche il trattamento economico dei dipendenti del medesimo primo Parlamento d’Europa fu equiparato a quello dei dipendenti del Senato. E’ lecito pensare che senza quell’atto scellerato, tutto l’apparato pubblico in Sicilia sarebbe diverso? Che non ci sarebbero super stipendi, super pensioni, (e posso affermarlo perché non mi fa velo la mia condizione personale, credo di sapere chi sono), e, ancora, assunzioni senza concorso pubblico, legioni di precari, il trionfo del lassismo, del parassitismo, del riconoscimento del merito a tutti, indiscriminatamente, il godimento di una sostanziale immunità da parte del pubblico impiegato, e tante infinite piccole e grandi nefandezze? E’ lecito pensare che la Sicilia sarebbe migliore?

Sento dire in giro: ”Ma il risparmio sarebbe poca cosa”. Giusto, non è una questione di soldi. Sacrosanto! Non è una questione di soldi (anche se un risparmiuccio di 100 milioni di euro all’anno con il solo dimezzamento delle spese dell’Assemblea non sono bruscolini). Quante scuole si potrebbero rimettere in sesto, riscaldare e attrezzare!! A quanti bambini potrebbe essere garantito il tempo pieno!!

Davanti a quella decisione il Governo centrale non fece un plissé. Era cominciato il rapporto perverso tra Roma e Palermo che si può sintetizzare nella formula “oil for food”. Soldi in cambio di voti.

Io non sopporto quelli che cadono dal piede di pitrusinu. La politica nazionale, l’Amministrazione statale e il governo centrale possedevano e possiedono tutti i poteri politici e giuridici per intercettare l’avvio e la prosecuzione di uno scempio sistematico. Penso al Commissario dello Stato, penso alla Corte dei Conti, la quale, se, invece di fare soltanto le annuali rituali reprimende in toga e tocco avesse denunciato una sola volta alla sua Procura qualche Presidente di Regione e qualche Assessore particolarmente sbarazzini, avrebbe veramente dato una mano ai siciliani.

Ma la linea è stata sempre quella: utilizzate il denaro pubblico per clientele e assunzioni e la caccia al consenso generalizzato, e ritornate questi soldi sotto forma di voti al blocco storico dei centrodestra e dei centrosinistra nazionali che, se hanno governato per decenni lo hanno dovuto proprio a questo meccanismo distruttivo (e la sinistra ha firmato, se non tutte, posso dirlo senza tema di smentita, quasi tutte le leggi regionali, oscillando dalla posizione di complice – Lazzaro -quello che mendicava le molliche alla cena del ricco Epulone), a quella di utile idiota) .

Se lo Statuto, questo Statuto e non un altro, fosse interamente attuato, se la politica regionale, se il governo regionale avessero il coraggio e la forza di portare al Parlamento nazionale quest’istanza e anche la nobiltà e l’abilità di dimettersi se trovassero davanti a sé un muro, la Sicilia sarebbe una piccola nazione. Con il suo territorio, la sua popolazione, il potere di imporre e riscuotere i tributi, il potere di fare e di abrogare le leggi, il potere di farsi obbedire, e con un apparato giurisdizionale interno. Non è forse questa l’essenza della sovranità statuale? Mancherebbe il potere di battere moneta, ma quello ormai non spetta più agli Stati, spetta all’Europa unita.

In possesso di questi dati, e con il loro viatico esaminiamo adesso la costruzione della struttura burocratica dell’amministrazione regionale. Vedremo presto che quella costruzione venne realizzata con lo stesso spirito, con lo steso metodo e con lo stesso merito di tutto quello che era stato fatto prima. E, purtroppo, non poteva essere diversamente, perché in democrazia non ci sono alibi: in democrazia non esistono cattivi governanti, ma cattivi elettori.

Il primo nucleo di personale fu costituito da personale proveniente dallo Stato, per lo più dalle ex colonie. Si trattava ovviamente di personale che a suo tempo era stato trasferito in Africa per le proprie particolari caratteristiche quanto alla competenza,serietà e sensibilità, alla voglia innata di lavorare, e che nell’esercizio delle proprie funzioni aveva maturato un profondo rispetto dell’utenza e dei colonizzati, e, soprattutto, dotato di una innata propensione alla applicazione dei nuovi precetti democratici dell‘Italia repubblicana

Il meccanismo dello Statuto prevede che alle funzioni trasferite dallo Stato alla Regione, questa provvede utilizzando il personale dello Stato che fino ad allora quelle funzioni aveva esercitate. Tanti occhielli e altrettanti bottoni.

Tuttavia al generoso manipolo di fondatori venne affiancato gradualmente un piccolo ma bellicoso esercito di provinciali, provenienti dalle zone di influenza dei presidenti della regione che si sono succeduti nel tempo. E così al drappello dei nisseni, si aggiunse quello degli agrigentini. Poi fu la volta dei palermitani. E degli ennesi. Tutti assunti dopo una rigorosa selezione e prove durissime(culminanti nell’esibizione del certificato elettorale). La maggior parte fu assunta con qualifiche molto basse e(sulla carta), per l’esercizio di mansioni di manovalanza (listinisti, diurnisti, operai etc.). Questo handycap, però, con il passare del tempo, non ha impedì ai capaci e meritevoli di raggiungere persino la qualifica di direttore regionale.

Negli anni Sessanta i dipendenti regionali erano diventati circa cinquemila. Cominciò, con un ritardo non casuale di circa 15 anni, un timido abbozzo di piante organiche e di ruoli assessoriali, con numeri predeterminati e si ebbe una breve stagione di concorsi pubblici che si concluse nei primi anni settanta, poi ripresa in pochissime occasioni negli anni ’80 e ’90.

Io mi onoro di fare parte di questa esigua minoranza.

Il decennio 1975-1985 trasforma irreversibilmente la Regione in un carrozzone di proporzioni mostruose. Tra occupazione giovanile [(legge Anselmi in salsa regionale e cooperazione giovanile (tutti assunti senza nemmeno chiedere loro i carichi pendenti; al solito, basta il certificato elettorale)], corsisti, tecnici assunti per esaminare le pratiche delle sanatorie edilizie, personale transitato dallo Stato e dagli enti parastatali (Eas, Ina Casa, Incis, Archivi di Stato,Opere universitarie, Ministeri Agricoltura, Beni culturali, Lavoro, Lavori pubblici,dall’ex Agensud,e chi più ne ha più ne metta, da settemila i regionali diventano 17.000.

Poco male, direte voi, basta che il personale transitato continui a fare quello che faceva nello Stato. Ma per molti, la maggioranza, non è così. Con la legge di riforma burocratica(1971) i ruoli regionali erano stati aboliti ed era stato creato il ruolo unico del personale regionale. Che vuol dire? Che basta essere assunti in regione per essere posizionati dove si è più utili. In realtà dove è più comodo. Danno e beffa, dunque. Tutti diventano amministrativi, perdono la propria specifica competenza e vanno dove gli pare. Tanto un assessore che li accontenta, per esigenze di servizio, si trova sempre. Inizia un tourbillon delirante. Chi torna al paesello, chi lascia il paesello, chi cambia assessorato, chi se ne va sotto casa. Uffici si svuotano, uffici si riempiono, secondo le leggi di Peter incrociate con quelle di Murphy in giro vertiginosamente sul nastro di Moebius.

Poco male, direte voi, prima o poi per gli effetti dell’entropia tutto si fermerà e sarà sufficiente che i nuovi regionali vengano formati e si comincerà a ragionare. Non solo non sono stati formati ma pochissimi hanno giurato fedeltà all’amministrazione,che mi piace ricordarlo,è un elemento essenziale del rapporto di impiego.

Vengono così perdute professionalità importanti (penso ai funzionari degli uffici del Genio civile che avevano anche poteri di polizia nell’esercizio della vigilanza della conservazione del territorio e dei corsi d’acqua).Poteri già definiti(il compito di coordinamento degli interventi in caso di emergenze)non vengono esercitati e si procede ad alla creazione di ultronee strutture(la c.d. protezione civile)

Affrontiamo adesso il problema dei problemi.

La parola amministrare e la parola amministrazione hanno qualcosa in comune? Certo! E dunque chi amministra deve conoscere le regole che presiedono alla amministrazione, cioè il diritto amministrativo.

Ebbene sugli attuali 17.000 impiegati soltanto un centinaio è laureato in legge, o scienze politiche,o economia. Quindi se teniamo conto che le posizioni apicali di primo, secondo e terzo livello (i livelli dirigenziali) sono migliaia, vi rendete conto che l’amministrazione, nella stragrande maggioranza, è retta da ingegneri, architetti, geologi, medici, linguisti, biologi, interpreti e quanto di più bizzarro possa esserci nel campo dei diplomi di laurea. Che c’entrano questi diplomi con la legge e con il diritto? Niente.

Ma la legge ha un grave difetto: è scritta in lingua italiana e tutti, dico tutti, possono leggerla e quindi credere di capirla e di poterla scrivere. Persino un tecnico. In una amministrazione degna di questo nome, la tecnicità del diritto è pari a quella della scienza delle costruzioni e così come un avvocato non entra nel merito dei calcoli in cemento armato, cosi un ingegnere con deve entrare in questioni giuridiche. A meno che non voglia fare la fine di quel tecnico che al cambio della guardia in un assessorato, riteneva che tutti gli atti del predecessore fossero decaduti e ne esigeva la reiterazione. Ma le cose vanno esattamente come non dovrebbero e ai mali endemici della burocrazia si aggiunge lo specifico siciliano.

La mancata conoscenza di principi del diritto genera, tra gli altri mali, la cosi detta legge – provvedimento. La legge,si sa, è generale ed astratta, ed ha una forza tutta sua che non postula spiegazioni. Alcuni capoccioni tecnici, per timore di emanare un provvedimento amministrativo sbagliato se lo fanno spiegare nella legge. E così, ad esempio, invece di affermare apoditticamente: “Il personale regionale deve tagliarsi i capelli a zero”, si legge: ”Al fine di assicurare l’igiene e la salute negli uffici della Regione, atteso che è in atto una recrudescenza della peduncolosi che affligge anche gli adulti, poiché è accertato che la sede naturale dove si annidano i pidocchi sono i capelli, il personale regionale deve tagliarsi i capelli a zero”.

Vi vien da ridere? Ve la faccio passare. Andiamo all’applicazione della legge-provvedimento. Chi ha studiato diritto la attua applicando i principi del diritto. Chi invece è digiuno di diritto comincia a secernere dubbi: La legge si applica anche al personale comandato da altre amministrazione che non è regionale? I precari sono da equiparare nella fattispecie al personale regionale? Il personale regionale che presta servizio in altre amministrazioni è soggetto alla tonsura? Per adulti si intendono i maggiorenni o le persone al di sopra di una certa età? I calvi devono radersi? Che cosa si intende per taglio a zero? E’ imposto l’uso del rasoio oppure può disporsi l’uso di una macchinetta?

Verrà richiesto parere apposito all’Ufficio legale, e in caso di ulteriori perplessità, al Consiglio di giustizia amministrativa o all’Avvocatura dello Stato. Se tutte le perplessità non verranno fugate si farà una norma di interpretazione autentica a chiarimento.

Intanto i pidocchi ingrassano.

Il dramma vero è che non è colpa loro. Lo dico e lo ripeto. Perché chi è fuori mestiere fa un mestiere in cui è incompetente? Perché questa gente che ha studiato per fare ponti, strade, strutture, analisi,studi e ricerche di carattere scientifico viene messa a fare decreti?

A questo punto forse qualche lettore verrà assalito dal desiderio di adottare una soluzione cambogiana, alla Pol Pot, e si disporrà allo sterminio di una buona metà del personale regionale.

Eppure qualche rimedio c’è. Purtroppo si tratta di una vera e propria rivoluzione, non quella strombazzata da Crocetta. E’ una rivoluzione incruenta, ma difficile come tutti i rimedi razionali in un mondo impazzito. Il presupposto per attuarla sta nella posizione di forza assunta dal Presidente della Regione con la nuova legge sull’elezione diretta: la forza deterrente della minaccia di dimissioni cui conseguirebbe lo scioglimento immediato dell’Assemblea regionale. Alla forza deve però unirsi la volontà di usare lo strumento. Non mi sembra che Crocetta abbia dell’una e dell’altra, anzi …

Infatti, quando ha inviato al Presidente dell’Ars la proposta normativa di ridurre le indennità parlamentari è stato informato dell’ autonomia del Parlamento, dichiarazione accompagnata da uno sberleffo. Rosario Crocetta se ne è tornato via con la coda tra le gambe. Altra cosa sarebbe stata se il Presidente della Regione avesse ingiunto all’Ars di ridursi tout court le indennità ad un terzo, chiarendo al Presidente dell’Ars che, in difetto, il Presidente della Regione si sarebbe dimesso e che, per l’effetto, il Presidente dell’Ars, sarebbe tornato ad essere il signor Ardizzone, il quale, se si volesse ricandidare dovrebbe chiarire ai suoi elettori che si trova nella condizione di candidato perché voleva mantenere per sé e per tutti altri deputati regionali le indennità mensili di circa 20.0000 euro, oltre ad ammennicoli vari. Altro che Commissioni di studio e proposta!!

Sarebbe sufficiente che quello stesso Consiglio di presidenza dell’Ars che adottò la delibera dell’equiparazione al Senato del trattamento dei deputati regionali, trasformatosi sotto la minaccia di andare a casa in una lega di uomini spaventati aggiungesse al quella disposizioni il seguente inciso:”ridotto di 2/3”.

Potrebbe essere un efficace metodo di governo,a pensarci bene. Una maggioranza litigiosa e inetta diventerebbe un coro unanime e operoso. Basterebbe sbattere gli attributi sui tavoli. Orbene, i tavoli ci sono, ma …

Con la forza e la volontà ecco le riforme da fare.

Prima Fase

1) Determinare i carichi di lavoro dell’amministrazione regionale. Significa sapere quello che si deve fare, chi lo deve fare, quanto costa farlo. Predisporre, sulla base di uno studio preventivo un numero di prototipi operativi sufficienti a corrispondere quanto più possibile alle competenze dell’amministrazione regionale nella sua articolazione territoriale. Trasferire i prototipi sul territorio e procedere ad una distribuzione a territoriale di tutto il personale tenendo conto delle esigenze del territori, degli abitanti, e delle tipicità,vocazioni e specificità. Sulla base dell’organico regionale ripartito a livello provinciale, definire in contrattazione sindacale centrale i criteri in base ai quali il personale viene ridistribuito sul territorio e ne vengono razionalizzate competenze e funzioni.

2) Avviare,a livello periferico, un generale processo di formazione, riqualificazione e addestramento del personale,funzionale al nuovo sistema, con la creazione di nuove e moderne professionalità.

3) Una questione centrale va affrontata una volta per tutte:è indispensabile,ripeto indispensabile unificare e verticalizzare il processo di utilizzo dei fondi di provenienza extraregionale(comunitari e statali).La risposta è una sola:tutti gli uffici dell’amministrazione regionale siti in tutti i rami dell’amministrazione che si occupano di fondi extraregionali,cioè, devono passare alle dirette dipendenze del Presidente della Regione: è una semplificazione(come passare da 4/8° a ½) che riduce tempi, passaggi, poteri di interdizione, negoziazioni, ricatti, rappresaglie e tutte le miserie che rallentano scandalosamente l’utilizzo dei fondi comunitari e statali. Ovviamente il personale va specificamente aggiornato,e in breve tempo trasformato in uno staff operativo migliorandone la già elevata qualità. Il futuro della Regione è in questi soggetti, non certo nei precari e nei questuanti. Questi tutt’al più possono costituire il futuro degli accattoni della politica.

4) Occorre riportare il numero dei dirigenti generali a quello dei rami dell’amministrazione regionale o poco più. E’ un’esigenza ad un tempo di operatività e di economia(le spese si dimezzerebbero). Occorre ridare dignità alle funzioni amministrative apicali, mortificate da uno spoil sistem che somiglia tanto al ricatto e realizzare nei fatti la separazione tra politica ed amministrazione. Due presidi: la sanzione normativa dell’incompetenza degli atti posti in essere dai vertici politici in surroga dei vertici amministrativi, rilevabile d’ufficio e la previsione della responsabilità amministrativa e contabile per le conseguenze derivante dalla caducazione degli atti incompetenti; l’eliminazione della norma sulle sostituzioni dei dirigenti generali in caso di cambi al vertice e la previsione generalizzata dell’allontanamento degli stessi solo in presenza dei casi che prevedono la sospensione dal servizio.

5) La cosa più difficile: è quella più importante. Abbiamo visto come è stata effettuata nel tempo la provvista di personale nella Regione. Ci sono stati apporti di ogni tipo e da ogni dove. La Regione è come una classe scolastica raccogliticcia e dispersa con sempre nuovi apporti difficili da metabolizzare. Alla fine del ciclo di studi ognuno se ne andrà per la sua strada e chi si è visto si è visto. Ci sono invece classi che nel tempo sono rimaste pressoché con gli stessi studenti. Hanno avuto il tempo e modo di conoscersi, fare amicizia, amalgamarsi, riconoscersi. A questo processo, ovviamente, non sono estranei presidi e insegnanti: se sono bravi,capaci, responsabili, compresi nella loro missione si diventa orgogliosi di essere loro allievi e questo con concorre alla formazione della cosa più importante: il senso di appartenenza. Ecco quello che manca alla regione,ma non dispero: forse i pogrom in atto paradossalmente lo stanno facendo nascere.

Fase seconda: il decentramento.

Una fase cruciale della vita e del futuro della Regione dipende dalla decisione secondo me ineludibile sul suo destino e sulla sua missione amministrativa. Il che ovviamente segue e consegue dalla decisione sul futuro della Sicilia.

Quale che sia le scelta primaria, va fatta una scelta operativa sul se la regione debba essere concepita e costruita come ente centrale, centralizzato e centralizzatore che assommi in sé tutte le fasi della azione pubblica concepita come unitaria, ovvero che la regione costruisca per sé il ruolo di ente programmatore, con funzioni di tutoraggio, assistenza tecnica, ispettive e di controllo dell’azione amministrativa affidata in piena titolarità ad enti sub regionali(liberi consorzi e province), riducendo drasticamente il suo personale a pro degli enti sub regionali.

Nonostante le buone intenzioni e le disposizioni di legge che lo sanciscono, il decentramento è visto come uno spauracchio da una classe politica che non sa vedere al di là del suo naso, del suo particolare,del suo interesse minimo e miserabile. I passi più audaci si non fatti in direzione di un decentramento amministrativo,minimale e revocabile, anche questo solo sulla carta. Io parlo di cessione di quote di potere, di un passaggio vero di competente, di una scelta politica.

Io parlo di chimere, di utopie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Busalacchi

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