Centocinquant’anni di unità? No, di bugie (e omissioni)

Il recente e interessante articolo di Giulio Ambrosetti dal titolo “Le statue dei Savoia in Sicilia? Regaliamole tutte al Piemonte” ha avuto il grande merito, così come lo stesso invitava a fare,di aprire un opportuno dibattito sul grande equivoco e dei personaggi che ne furono protagonisti, di quello che fu il Risorgimento per la Sicilia e per il Sud d’Italia.
La storia del nostro Paese ci consegna, dedicando loro immeritatamente statue, vie, piazze, scuole, teatri, cinema, navi e quant’altro, eroi altrimenti detti padri della patria che poi, a ben vedere, tanto eroi non furono e ancor meno padri della patria. Primo tra tutti il “Re galantuomo”, mandante delle stragi che agli albori dell’Unità d’Italia insanguinarono il Mezzogiorno e la Sicilia con le repressioni, essendo, dai piemontesi, il Mezzogiorno considerato terra di conquista e non di liberazione e i suoi abitanti gente da civilizzare, che costarono centinaia di miglia di morti molto di più di tutte le guerre del Risorgimento messe assieme.
Questo fu il tributo di sangue che il Sud fu chiamato a dare alla sete di conquista dei piemontesi e del Nord il cui principale obiettivo era quello di un’espansione territoriale funzionale ai propri interessi strategici ed economici e l’imporre poi, da famelici conquistatori, ai territori occupati le proprie leggi, i propri ordinamenti e i prodotti delle industrie del Nord da destinare ai mercati meridionali.
Come non dimenticare che al grido di “Avanti Savoia” i piemontesi dei generali Cialdini, Pallavacini e Govone, negli anni immediatamente successivi alla proclamazione dell’Unità d’Italia, 1861-1870, si distinsero per inenarrabili crudeltà, massacrando le popolazioni meridionali e siciliane che gli stessi generali piemontesi si piccarono di definire barbare ed incivili. Il generale Enrico Cialdini, inviato a Napoli nella qualità di luogotenente di Vittorio Emanuele II, nell’agosto del 1861, con poteri “eccezionali” per combattere il brigantaggio, a proposito degli abitanti dei territori occupati sotto la sua giurisdizione, in una lettera inviata a Cavour così ebbe testualmente a scrivere: “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Il generale Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali, occupati da altri italiani che avevano il solo torto di essere meridionali, per terrorizzare e fiaccare la loro resistenza. E a chi gli faceva osservare che il suo inumano comportamento non era per niente rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene” Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”.
Cialdini si rese negli anni successivi protagonista nella lotta al “brigantaggio” ( che non fu altro che una guerra civile combattuta dai contadini meridionali, che come scrisse Antonio Gramsci nel suo lucido saggio sul Risorgimento, scrittori salariati si ostinarono a infangare con il nome di briganti) di eccidi e di massacri nei confronti delle popolazioni meridionali. Furono rasi al suolo, al grido di “avanti Savoia” centinaia di paesi e massacrati gli abitanti e le teste mozzate dei cosiddetti “briganti” appese in teche di vetro a monito e a terrore degli abitanti del luogo all’ingresso dei paesi. Pontelandolfo e Caslduni, due comuni campani della provincia di Benevento, che avevano il torto di essersi ribellate agli invasori piemontesi, il 14 agosto del 1861 vengono rasi al suolo e gli abitanti – uomini donne e bambini – tutti trucidati. Dei due paesi saccheggiati e distrutti nessuna casa rimase in piedi.
Molti anni più avanti, a Marzabotto e a Sant’angelo di Stazzena, dove vi furono pure ma in minor numero stragi di innocenti da parte dei nazisti, le cittadine rimasero in piedi. A differenza di quanto avvenne in Campania a Pontelandolfo e Casaldunu, paesi che vennero dati alle fiamme e rasi al suolo ad opera dei piemontesi. Cialdini nei suoi ordini scritti ai suoi sottoposti, in virtù della legge Piga che consentiva di fucilare sul posto i sospetti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”.
Questi erano gli avvenimenti che agli albori dell’Unità d’Italia al grido di “avanti Savoia” avvenivano nel Mezzogiorno in nome del “Re galantuomo”, della democrazia e dell’Unità da poco proclamata.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Cialdini, Nino Bixio, il massacratore di Bronte, a proposito della considerazione che aveva della Sicilia, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. E che dire, poi, del generale Giuseppe Govone, mandato da Vittorio Emanuele a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di porre in stato d’assedio intere città e paesi della Sicilia, di fucilare sul posto chi gli capitava a tiro, di torturare e di arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili.
Ebbene, anche il generale Govone per non essere da meno dei suoi conterranei e per difendere e giustificare il suo criminale operato nell’uso dei metodi di costrizione nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, che affermare in pieno parlamento, a Palazzo Carignano, che “nessun metodo poteva avere successo in un paese come la Sicilia che non è sortita al ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.
Queste le premesse di impronta razzistica che furono alla base del processo unitario e della mala unità d’Italia e di cui furono portatori i piemontesi conquistatori del Sud e precursori delle teorie lombrosiane sulla inferiorità della razza meridionale. Ebbene, a questi signori da Vittorio Emanuele II a Cialdini, da Bixio a Govone e a tanti altri, per “riconoscenza” alle loro “attenzioni” i meridionali e i siciliani non trovarono di meglio che dedicare loro statue, strade, piazze, teatri, scuole e quant’altro. E’ora di finirla. E l’articolo di Ambrosetti andava proprio in questa direzione nell’auspicare la cancellazione di quella “damnatio memoriae” cui sono state condannate per 150 anni dalla storiografia ufficiale e scolastica intere generazioni di italiani, propinando loro falsità storiche e la ipocrita imposizione di miti e di falsi eroi e di fantomatici padri della patria che furono, invece, tutt’altra cosa.
“Questo è un Paese senza memoria e senza verità – diceva Leonardo Sciascia – ed io cerco di non dimenticare”. E proprio per non dimenticare è ora che questi falsi eroi vengano disarcionati da quelle statue equestri cui li avevano allocati storiografi e agiografi compiacenti per risarcire i meridionali e i siciliani in quanto creditori di una verità storica che, nel corso di questi 150 anni, è stata loro sempre negata.
In conclusione, a proposito di questa storia scritta ipocritamente “Ad usum delphini”, è più che calzante l’aforisma del poeta e romanziere francese Jean Cocteau: “Che cosa è la storia dopo tutto? La storia è fatta di avvenimenti che finiscono per divenire leggende e le leggende bugie e falsità che finiscono per di venire storia”. E con questa falsa storia che ci è stata raccontata per 150 anni è proprio ora di finirla.


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