Con gli aerei, via mare, su strada. La cocaina a Catania arriva da tutti i lati. A dirlo è l’offerta costante garantita nelle tante piazze di spaccio che costellano la città, in centro come nelle periferie, ma anche le attività di polizia giudiziaria messe in atto per provare ad arginare il flusso di stupefacenti che, non è mistero, resta tra le primissime fonti di finanziamento della mafia.
L’ultimo sequestro risale alla settimana scorsa. La guardia di finanza ha intercettato oltre un quintale di coca con un elevato grado di purezza. Il carico è stato bloccato all’interno del porto di Catania, dove era giunto a bordo di una nave proveniente da Malta. In origine era stato imbarcato, insieme a banane e ananas, in un porto dell’Ecuador, in Sud America. Su chi fossero i destinatari finali della partita di droga vige il massimo riserbo da parte degli inquirenti, che sperano di ricostruire a posteriori la filiera, non escludendo possa trattarsi di una rotta già rodata. Al momento ciò che trapela è che, una volta sbarcato, il carico avrebbe dovuto viaggiare su gomma verso il sud dell’isola, fino – forse – a Licata.
Si è trattato soltanto dell’ultima dimostrazione di come Catania sia un hub per il traffico internazionale di droga. Per avere ulteriori conferme basta tornare indietro nel tempo di qualche anno: nel 2019, la guardia di finanza sequestrò ad Acireale ben quattrocento chili di cocaina purissima che era arrivata nel capoluogo etneo con un aereo. In quella circostanza i militari monitorarono il carico sin dalla partenza, gestita dagli emissari di Ismael Zambada Garcia, narcotrafficante messicano conosciuto come el Mayo e il cui spessore è tale da trovare ampio spazio – per via della vicinanza a el Chapo Joaquin Guzman – nella serie televisiva Narcos: Mexico.
Ma è ancora più recente il viaggio che ha portato a Catania più di due tonnellate di cocaina. Anche in questo caso si è trattato di una consegna che la guardia di finanza ha monitorato per lungo tempo. La vicenda si è svolta a cavallo tra la fine del 2020 e la primavera successiva ed è raccontata all’interno dell’inchiesta della procura di Reggio Calabria che, venerdì scorso, ha portato in carcere oltre una trentina di persone. Nel mirino dei magistrati della Dda reggina sono finiti gli affari illeciti che passano per il porto di Gioia Tauro, uno degli snodi nevralgici in Europa per il traffico di stupefacenti. Tra gli arrestati ci sono anche i campani Bruno Carbone e Raffaele Imperiale e il calabrese Bartolo Bruzzaniti. Per loro l’accusa è di avere organizzato una spedizione di cocaina dal porto di Turbo, in Colombia, a quello di Gioia Tauro, passando per Cristobal, città dello stato di Panama. In Calabria, Bruzzaniti, 46enne nativo di Locri, avrebbe avuto un gancio in Giuseppe Papalia, dipendente di una ditta di autotrasporti accreditata all’interno del porto. L’uomo, a cui viene contestato anche l’avere agito per favorire le ‘ndrine tirreniche, sarebbe stato tra coloro su cui si poteva contare per movimentare i carichi di droga, in modo da garantirne l’uscita dal porto. Un’operazione non esente da rischi, ma che – stando alle intercettazioni raccolte dagli investigatori, dopo essere riusciti a forzare la piattaforma di messaggistica criptata utilizzata dai narcotrafficanti e finché questi ultimi non ne sono venuti a conoscenza – avrebbe elevate percentuali di riuscita.
Ciò sarebbe stato facilitato grazie anche ai servigi offerti da funzionari infedeli, come nel caso del 61enne Pasquale Sergio, doganiere finito in carcere. Tra gli addetti allo scanner utilizzato per controllare i container che approdano nelle banchine, Sergio avrebbe garantito trattamenti di favore in cambio della promessa di ottenere una ricompensa pari al tre per cento del valore della droga. Per il carico in partenza da Turbo – 1920 panetti posizionati tra i caschi di banane Cavendish che riempivano uno degli oltre tremila container arrivati, a metà marzo dello scorso anno, con la nave cargo Giselle – Carbone, Imperiale e Bruzzaniti avrebbero potuto contare su un funzionario doganale corrotto, ma per il gip, a differenza di altre occasioni, non è sicuro che il riferimento fosse a Sergio. Ciò che è certo è che i trafficanti avrebbero avuto importanti entrature in Colombia, non solo tra i narcos. Parlando con Papalia, a febbraio del 2021, Bruzzaniti sottolinea l’importanza di fare in modo che le operazioni a Gioia Tauro siano sicure, che il funzionario faccia il proprio dovere. «Ditegli di fare il bravo sennò non si gode la pensione», avverte Bruzzaniti. L’uomo poi spiega perché da settimane spinge per dare il via alla spedizione: anche se l’agibilità del porto di Turbo sarebbe stata garantita, bisognava fare i conti con i tanti interessati al traffico di droga. In questo senso, Bruzzaniti suggerisce di non investire mai in carichi di droga se non c’è «accordo con paramilitari».
Seppure con qualche mese di ritardo, la cocaina parte dalla Colombia, passa da Panama e arriva in Calabria. Qui, come pattuito, la droga, che era stata nascosta nelle cassette seguendo lo schema fornito dal doganiere, non sarebbe stata prelevata all’interno del porto ma tenuta nel container finché quest’ultimo sarebbe stato portato in un capannone a disposizione dei referenti dei narcotrafficanti. Il piano, però, salta. «È plausibile ritenere che la scoperta della violazione di Sky Ecc (la piattaforma utilizzata per comunicare forzata una settimana prima dalle autorità francesi, ndr) – si legge nell’ordinanza – abbia fatto temere al gruppo che le forze dell’ordine potessero ricostruire rapidamente gli avvenimenti e intercettare il carico in arrivo. Si può quindi ipotizzare che i sodali abbiano deliberatamente scelto di sospendere l’attività e abbandonare il container al proprio destino». I finanzieri, dopo avere appurato la presenza della cocaina tra la frutta, hanno seguito il container trasportato su strada fino a uno stabilimento della zona sud di Catania, per poi intervenire e sequestrare lo stupefacente. «Esclusa ogni tipo di responsabilità in capo all’azienda che riceveva il carico», sottolinea il gip. Così come non è possibile stabilire se l’ingente quantitativo di cocaina trattata da Carbone, Imperiale e Bruzzaniti fosse – in tutto o in parte – destinato alle piazze etnee. Tuttavia, nelle fasi preparatorie della spedizione, i trafficanti italiani avevano fatto sapere a Papalia che i narcos colombiani volevano visionare i documenti con le indicazioni simili – «ditta esportatrice, ditta importatrice e tipologia di prodotto contenuto» – a quelle del container che sarebbe stato usato per far viaggiare la droga. A quella richiesta Papalia cercò rispose recuperando la documentazione di «un Catania» che da lì a poco avrebbe portato nel capoluogo etneo tonnellate di banane.
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