Catania-Cosenza, l’imperfezione dello zero a zero Note su una partita che sarà facile dimenticare

Una scuola di pensiero minoritaria, ma che saprebbe addurre qualche argomento a sostegno delle proprie tesi, afferma che lo zero a zero sia, nel calcio, quanto di più vicino possa esserci alla perfezione. L’affermazione si fonda sul fatto che, tra una difesa ben organizzata e un attacco quanto si vuole irruente o fantasioso, la prima è comunque in condizione di prevalere se chiude meticolosamente tutti gli spazi, se pratica quel tanto d’arte della guerra che basta a anticipare ogni mossa avversaria, e se dunque non commette, nell’arco dei novanta minuti più recupero, nessun errore grave o fatale distrazione. Fortunatamente nessuna perfezione è di questo mondo e il calcio ogni giorno apre il suo vaso di Pandora carico di errori, e di conseguenza di gol. Del resto, l’inquietante teoria che identifica la perfezione con il nulla di un pareggio a reti inviolate soggiace a non rare eccezioni. Ed è di una di queste che ora ci tocca parlare.

Seguendo la partita pareggiata appunto per zero a zero al Massimino tra Catania e Cosenza, ho visto cose che coloro che si trastullano con la Champions League non possono immaginarsi. Ho visto due squadre – che seppur giochino in serie C sono pur sempre fatte di gente che si guadagna da vivere giocando a pallone – alternarsi nei pressi della linea del fallo laterale, battendo a turno la stessa rimessa, e facendola battere a più d’un giocatore senza trovarne uno che fosse capace di rimettere la palla in campo secondo le prescrizioni del regolamento. Ho visto tiracci da fuori area rimbalzare sulla pancia di un portiere (quello del Cosenza) atteggiato alla più facile presa, e schizzare pericolosamente all’indietro, sui piedi di un giocatore del Catania (Lulli), cui sarebbe bastato poco a quel punto per spingere la palla dentro. Ho visto giocatori del Catania cui sarebbe bastato poco per spingere la palla dentro – vabbè, ho visto Lulli – prodursi in improbabili palleggi acrobatici, riuscendo a trasformare un gol quasi fatto in un principio di disimpegno a vantaggio della difesa avversaria, che assisteva grata e incredula alla dilapidazione di quel ben di Dio. E ho visto insomma la mia squadra, che fin qui si era manifestata fin troppo superiore alla maggior parte degli avversari affrontati, spuntare impotente le sue armi – nonostante le non poche occasioni da gol – sull’onesta muraglia costruita da un avversario di mezza classifica. Avversario che oggi ci sopravanza ancora di quattro punti, stante la ben nota penalizzazione lasciataci in dono da Pulvirenti e compagnia.

Vabbè, per farla breve, ho visto una partita di serie C, una come mille e mille altre. Sicché, se di questo Catania-Cosenza dovrà restare qualcosa nella memoria, non sarà forse nulla di ciò che ho visto, ma qualcosa che, mi dicono, allo stadio s’è sentito. E cioè un coretto di dileggio cantato dai tifosi del Catania: coro certamente non originale – e ancor meno elegante – nella sua parte finale, afferente come spesso avviene alla sfera delle umane deiezioni; ma graziosamente ambiguo nel suo esordio, che non lasciava comprendere se esso fosse rivolto a un singolo abitante della città di Cosenza – eletto a rappresentante dell’intera popolazione urbana –; o non piuttosto a un ex dirigente del Catania di nome Pablo: lo stesso che appena un anno fa veniva difeso a spada tratta dal presidente Pulvirenti, quando ancora la retrocessione in serie C poteva essere facilmente evitata e i treni del gol non erano nemmeno partiti.

È poca cosa, lo so. Ma poca cosa, nel complesso, m’è parsa anche la partita di mercoledì pomeriggio.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.  


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