Caso Rugolo, la Diocesi rompe il silenzio. Messina accusa: «Lo hanno protetto»

La sentenza della corte d’Appello di Caltanissetta è stata emessa nei giorni scorsi: don Giuseppe Rugolo è stato condannato a 3 anni di reclusione per abusi sessuali su minori, con pena ridotta rispetto ai 4 anni e 6 mesi decisi in primo grado. Ma la vicenda giudiziaria, che già da sola rappresenta un colpo durissimo per la credibilità della Chiesa siciliana, si intreccia con una gestione diocesana che oggi viene contestata non solo dalle vittime, ma anche da parte dell’opinione pubblica. A pochi giorni dalla sentenza, è arrivato un comunicato ufficiale dell’ufficio stampa della diocesi di Piazza Armerina, firmato sotto la supervisione del vescovo Rosario Gisana, «che intende – si legge – manifestare responsabilità e trasparenza» rispetto alla vicenda. «Coscienti della gravità di quanto avvenuto – recita la nota – il vescovo Rosario Gisana e tutta la Chiesa locale rinnovano vicinanza, sostegno e solidarietà alle vittime e all’intera comunità, provate da una vicenda che ha provocato e continua a provocare divisione e dolore».

Una dichiarazione dal tono istituzionale, che però appare in forte contrasto con quanto emerso nel processo: intercettazioni, testimonianze e documenti, secondo l’accusa, delineerebbero un comportamento tutt’altro che solidale o trasparente da parte delle gerarchie ecclesiastiche locali. Secondo quanto riportato anche dalla difesa delle vittime, non vi sarebbe stata alcuna reale presa di distanza o condanna pubblica nei confronti di Rugolo prima dell’avvio del procedimento penale da parte della magistratura ordinaria. Il comunicato prosegue ribadendo che il vescovo Gisana, «attenendosi alle normative canoniche», avrebbe avviato un procedimento canonico interno, già concluso con una «sentenza di condanna canonica». Ma nessun dettaglio è stato reso noto: né la data di apertura del procedimento, né le sanzioni ecclesiastiche adottate nei confronti del sacerdote. Non è noto, ad esempio, se Rugolo sia stato ridotto allo stato laicale, sospeso a divinis o semplicemente rimosso dall’incarico pastorale. Inoltre, nella stessa nota, la diocesi invita «chiunque abbia subito un abuso da parte di un sacerdote o di un laico che riveste un ufficio ecclesiastico» a rivolgersi all’autorità civile, ma anche al Servizio diocesano per la tutela dei minori, per permettere alla Chiesa locale di adottare «provvedimenti congrui al caso».

Un appello che per molti suona paradossale, considerato quanto dichiara chi, quegli abusi, li ha denunciati davvero. Antonio Messina, l’archeologo e testimone chiave dell’inchiesta, ha denunciato apertamente l’ipocrisia del comunicato: «Ma quale vicinanza alle vittime? Il vescovo – sostiene Messina -sapeva di altri abusi, è emerso in aula, e non ha fatto nulla. Durante il processo, la diocesi ha sostenuto una linea difensiva che ha cercato di screditarmi. Non ho mai ricevuto una parola di scuse. Nelle intercettazioni si sente chiaramente il pregiudizio nei miei confronti». Messina contesta anche la legittimità del citato procedimento canonico. A suo dire, non sarebbe mai stato attivato realmente dal vescovo, né ci sarebbero prove che Gisana abbia agito in modo diretto per fermare Rugolo. «Ho inoltrato personalmente la documentazione del processo a tre dicasteri vaticani, compresa la Dottrina della Fede, per chiedere un intervento sul sacerdote e sul vescovo», spiega. Ma dalle autorità ecclesiastiche centrali, finora, nessuna risposta pubblica.

Nel frattempo, si apre un nuovo capitolo giudiziario: il vescovo Gisana risulta indagato per falsa testimonianza, in merito a dichiarazioni rese durante il processo. Un passaggio che, se confermato, aprirebbe uno squarcio ancor più profondo nella credibilità della Chiesa locale. E che rilancia i dubbi sull’effettiva volontà di collaborare con la giustizia da parte della diocesi. Anche l’avvocata di Messina, Eleanna Parasiliti Molica, è intervenuta per sottolineare che la diocesi non è stata assolta, semplicemente perché non era parte del processo penale. «Era stata citata la Curia, ma la corte d’Appello l’ha ritenuta non legittimata perché organo amministrativo. In sede civile però – avverte – la diocesi potrà essere chiamata a rispondere. La sentenza d’appello non cancella il duro giudizio dei giudici di primo grado sull’operato del vescovo, che in aula ha definito Rugolo come il “nostro sacerdote”». Il clima a Piazza Armerina resta teso, con una comunità divisa e confusa. Da una parte chi chiede chiarezza, dall’altra chi cerca rifugio nel silenzio e nella fedeltà alla gerarchia. Ma la verità emersa dalle carte processuali lascia ad oggi poco spazio all’ambiguità. Nel caso Rugolo, più che mai, a pesare non è solo ciò che è stato fatto, ma ciò che non è stato detto. E che oggi, dietro le formule del comunicato ufficiale, continua a gridare giustizia.


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